“Anime nere” è il terzo lungometraggio di Francesco Munzi ed è stato presentato alla recente 71° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, riscuotendo un sorprendente successo di critica e di pubblico. Tratto da un romanzo di Gioacchino Criaco, il film è associabile alla tradizione neorealistica del cinema italiano e getta anch’esso l’occhio, seguendo le ultime tendenze del cinema nostrano, sul mondo della criminalità organizzata. Tuttavia, l’innovazione sta proprio nella tematica.
E’ il primo film che parla di ‘Ndrangheta. La ‘Ndrangheta che Munzi ci mostra vive negli attici di Milano, dialoga amichevolmente in spagnolo con i Narcos, veste firmato e nasconde nel privato le “t” aspirate ed i comportamenti stereotipati. I traffici illeciti, la droga, le speculazioni edilizie, tutto scorre tranquillamente in fiume placido fatto di quotidianità. Il terremoto che scuote l’universo dei fratelli “milanesi” Luigi e Rocco proviene dalle viscere, dalla Calabria, da quel paese sperduto tra le rocce ispide dell’Aspromonte e scaturisce dal colpo di pistola che il giovane Leo scaglia contro la vetrina di un negozio protetto dal clan rivale. A nulla serviranno i rimproveri di Luciano, il padre, l’unico dei tre fratelli che ha ripudiato la vita criminale e si ostina a vivere di pastorizia tra i monti di Africo, il paese natale. Leo scapperà a Milano dagli zii e risveglierà in quest’ultimi le pulsioni di quella cultura criminale, fondata sulla forza, sulla violenza e sulla vendetta, che sembrava ormai sopita dalla ricchezza e dalla vita borghese. Quella cultura che Leo, attraverso l’esempio degli zii, vede come parte integrante della propria identità, oltre che come unico mezzo per sfuggire alla miseria a cui il padre, con le sue scelte controcorrente, sembra voler destinare l’intera famiglia. Dunque Leo convincerà lo zio Luigi a tornare ad Africo, in un viaggio che diventa metafora di una discesa verso le zone oscure dell’anima, in cui tutto si spoglia d’ogni sovrastruttura. I palazzi di Milano diventano scarni agglomerati di cemento abbandonati, le strade diventano sterrate e fangose, le parole acquistano la ruvidità del dialetto di Africo.
Le istituzioni, lo Stato, la Chiesa, si muovono sullo scenario di Africo come comprimari, statuine di presepe che ripetono meccanicamente i gesti di scena: le perquisizioni, le omelie restano in superficie e diventano rappresentazione di rituali privi d’ogni profondo significato. Africo raffigura un abisso verso cui Leo e Luigi finiranno per precipitare. I disperati tentativi di Luciano di aggiustare bonariamente le cose saranno vani, la sua religiosità che sfocia quasi nella divinazione della magia verrà derisa. Egli stesso verrà inghiottito dal vorticoso corso degli eventi, verrà fagocitato dalla cultura mafiosa della violenza. Quando verrà chiamato dal boss locale a dare spiegazioni del gesto di suo figlio non saprà che rispondere, e verrà umiliato dallo stesso Boss perché lui, il fratello maggiore, non è al corrente di nulla. Quando Luigi verrà ucciso e Luciano cercherà d’imporre ancora la via della trattativa a Rocco, nel frattempo sceso con la moglie per sistemare le cose, verrà disprezzato e ripudiato dal figlio.
Leo cercherà di farsi maldestramente giustizia da solo proprio in risposta all’apparente debolezza del padre e finirà ammazzato, tradito dal migliore amico che lo sacrificherà per salvarsi la pelle. Di fronte all’ennesimo lutto, alla perdita dell’unico figlio e all’ostinata intenzione di Rocco di proseguire la guerra in maniera ancora più cruenta, la “ragione” di Luciano si spegne. “Il sonno della ragione genera mostri” diceva il pittore spagnolo Francisco Goya attraverso uno dei suoi quadri più famosi, e in un finale sorprendente la “ragione” di Luciano si spegne. Luciano prende in mano la pistola, sale le scale della vecchia casa di famiglia, e spara. Spara prima agli uomini appostati sul portone e poi al fratello Rocco, intento a fare colazione.
Un primo piano mette in risalto lo sguardo lucido, sconvolto, impotente, mentre guarda le donne impaurite ed esterrefatte in cerca di una spiegazione. Non c’è risposta di fronte a questa tragedia, a questo dramma ancestrale dove i buoni e i cattivi non esistono più. Proprio quando finalmente ha armato la pistola, dopo aver resistito con caparbietà ai richiami della vita criminale, Luciano, come i suoi fratelli, ci appare in tutta la sua sconfortante debolezza un “mostro”. Un mostro anch’esso precipitato nell’oscurità di una logica nera.
Stefano Cattafi