Mi è stato gentilmente chiesto di scrivere un resoconto dell’operato do noi naviganti impegnati nel “RACCOLTO” di CLANDESTINI che avviene ad una distanza di 13 miglia nautiche (23 km ca.) dalle coste libiche. Ho raccolto i miei pensieri in un Diario di Bordo, col quale informo i miei pochi amici del web, sul reale operato della nostra “formidabile” forza disarmata di mare.
Ringrazio il Colonnello Incursore Roberto Tollini per l’invito.
“2 Agosto
Mare forza 5 e peschereccio pieno di clandestini. Con la stanchezza che ho in corpo mi viene difficile anche solo mettere in ordine i pensieri, del resto, non sono uno scrittore.
È andato tutto storto, fin dall’inizio, solo l’inventiva e lo spirito di adattamento ci ha permesso di uscire da una situazione disastrosa.
Dopo appena un ora sostituisco l’altro operatore subacqueo, trasportato d’urgenza a bordo a causa di un collasso cardio-respiratorio. Ricoverato d’urgenza in infermeria, sento blaterare per radio quand’è che potrà risalire sulla motobarca, delirio da comando.
Dunque, dovete sapere che “prendere” un mare forza 5, con una motobarca di pochi metri, non è affatto facile, nè tantomeno sicuro, aggiungete il fatto che deve poi trovare la maniera di affiancarsi al barcone, cercare di rimanere stabile e permettere il trasbordo dei clandestini, allora tutto si complica in modo esponenziale.
Lo sforzo si triplica tra: il mantenere l’equilibrio onde evitare di farci male, controllare l’affiancamento della motobarca evitando quanto più possibile gli urti violenti alle fiancate in vetroresina, e trasbordare i clandestini a bordo evitando che cadano in mare, o peggio, che si tronchino qualche arto negli urti violenti tra le due imbarcazioni. Un lavoro faticosissimo e delirante, soprattutto se si aggiunge che dovevano essere trasportati su un mercantile, scarico, e con murate alte 15 metri, e l’unico mezzo di imbarco è una biscaglina in corda.
Stremati a ridosso del mercantile, sotto un sole implacabile nonostante il vento e le onde, e la necessità di trasferire a bordo un neonato di pochi mesi..
Giusto il tempo di guardarci in faccia e la decisione e presa: io salgo a metà della biscaglina, il ragazzo della Brigata S. Marco, a qualche piolo più in basso, che mi passa il piccolo, e io che lo passo sul mercantile pregando Dio che non mi sfugga dalla mano (l’altra la usavo per sorreggermi e stare in equilibrio).
L’operazione è portata a termine giusto in tempo, un ondata fa sobbalzare la motobarca e sia io che il ragazzo del S.Marco ci ritroviamo appesi come trapezisti di un circo ad una biscaglina dondolante, tutto senza cinture di sicurezza. Et voilà, signore e signori, lo spettacolo è assicurato.
Riesco a sedermi un attimo, il cuore a mille e il fiato corto, gli occhi che bruciano per il sudore che ci cola dentro, il mascherino di carta che sembra un mantice.
Ad un tratto un tocco delicato sul braccio mi fa alzare lo sguardo, una ragazza, somala credo, mi guarda e mi chiede..”are you ok?”, ed io..”no”, e lei..”I’m so sorry”
Non ho avuto parole, non ne avevo la forza, per lei solo una carezza sulla sua mano, data con uno spesso guanto di gomma. L’ho ringraziata così, con una carezza e un debole sorriso abbozzato al di sotto di un mascherino di carta.
I guai, quando arrivano, non arrivano mai da soli.
Un rumore sordo, seguito da un sussulto del motore della motobarca e il successivo brusco spegnimento.
Realizziamo subito l’entità e la causa del danno: uno dei supporti metallici dove era assicurata la rete naufraghi, aveva ceduto di schianto a causa di una corrosione mai “curata”.
La rete, finita in acqua, era stata risucchiata dall’elica e a causa della rotazione, l’aveva completamente avvolta, bloccandola e causando li spegnimento del motore.
La scena ci vede ancorati al mercantile tramite questa rete, e in balia delle onde. Bella situazione di merda.
Tagliare.
Unica soluzione, tagliare la rete lavorando di coltello, l’unico problema era la stanchezza e il mare grosso.
Elaboriamo velocemente una strategia: io mi sarei immerso, gli altri avrebbero garantito la mia incolumità tenendomi legato con una cima (corda).
Ho capito di potermi fidare ciecamente di loro soltanto guardandoli negli occhi, ma poi quando ho sentito il loro.. “capo, a te ci pensiamo noi, stai tranquillo”, allora quella fiducia è diventata di colpo un assoluta certezza. Potevo davvero fidarmi, e l’ho fatto.
Una corrente fortissima mi trascinava sotto al mercantile, ovviamente, previ accordi con il rispettivo comandante, le macchine erano ferme e l’enorme elica bloccata. Solo la corda, tenuta saldamente da un robusto, nostro, nocchiere , e da un operatore del S. Marco, ha evitato che fossi trascinato via.
Lavoro finito, risultato raggiunto.
Ringraziamenti? No. Pacca sulla spalla? Nemmeno.
Per noi neanche una parola. Solo tanta stanchezza e amarezza.
A volte mi chiedo perché scrivo tutto questo, come ho detto in precedenza, non sono un letterato tantomeno uno scrittore.
Forse scrivo per la voglia di far vedere, anche se con gli occhi della mente, ai non addetti ai lavori, quello che sopportiamo giorno dopo giorno, la lontananza da casa, gli spazi ristretti, lo stress, la fatica insita in certe situazioni, perdita del sonno, vibrazioni continue, puzza di carburante, rumori perenni, aggiungete un abbondante dose di menzogne e destabilizzazione psicologica da parte di un comando con un ego smisurato e megalomane, ed ecco che il quadro in cui sono immerso comincia a prendere colore.”
Jack Moreno