«[…] e, gridando a gran voce:
“In verità, questa è
si voltò rapidamente
a guardar la sua donna amata:
ella era morta!»
E. A. Poe
Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962) di Jean-Luc Godard non poteva che avere la forma del florilegio, dodici tableaux in cui la presenza delle numerose opposizioni che, attraverso il loro problematico dialogare, si palesano e si comunicano allo spettatore, fa del quarto lungometraggio godardiano un film di tensione, costruito su aporie incoercibili, su opposizioni dicotomiche, contrastanti e contraddittorie; un film a suo modo impegnato, con un suo scopo ben preciso, se non una missione: mostrare le opposte polarità, di qualsiasi tipo esse siano (interno/esterno, anima/corpo, soggetto/oggetto, vita/morte) che definiscono, e forse assillano, l’esistenza umana, per arrivare, infine, a coniugare i due estremi del pensiero estetico occidentale: arte e vita.
Nonostante il film prenda spunto da un’inchiesta sulla prostituzione di Marcel Sacotte intitolata Où en est avec la prostitution?, non è difficile scorgere una motivazione altra, non meramente sociologica, una motivazione che trova le sue radici più profonde proprio nella riflessione estetica che Godard sviluppa negli anni di militanza nella redazione dei “Cahiers du cinéma”, quando ancora si faceva chiamare Hans Lucas.
È ovvio quindi che l’intento del regista non è semplicemente quello di raccontare una storia o un mondo, ma quello di dar conto di una vita, anzi, come suggerisce il titolo, quello di Godard è un vero e proprio invito, una sfida a vivere la vita di Nanà (Anna Karina), a viverla attraverso il cinema.
Film hitchcockiano dunque, per l’importanza data all’immedesimazione dello spettatore e la fiducia nel potere empatico del mezzo cinematografico, Questa è la mia vita si pone una domanda fondamentale, o meglio la domanda fondamentale: se il cinema è rappresentazione, cioè costruzione e quindi finzione, come può dar conto della varietà e della casualità della vita umana?
Tema centrale del pensiero godardiano ― caratterizzato appunto da quella che Ghezzi definisce
«la lotta costante e perdente rispetto al desiderio di “accordo” nel cinema o mediante il cinema, mentre il cinema è la scissione codificata del vivere […]»[1] ― questa frustrante e irriducibile tensione tra realtà e finzione percorrerà quasi per intero la filmografia del regista, sino a palesarsi come vera e propria riflessione del e sul mezzo cinematografico nelle Histoire(s) du cinéma.
Manifestata dalla scena in cui Nanà fa della filosofia senza saperlo discutendo con Brice Parain sulla necessità umana di esprimere i pensieri attraverso le parole, l’idea di fondo da cui prende avvio Questa è la mia vita è che ogni atto comunicativo comporta, per forza di cose, una falsificazione/riduzione del reale e, pertanto, le dinamiche della comunicazione, alla fine, arrivano a definirsi come il vero nucleo tematico del film.
Pur essendo cosciente dello scarto abissale che intercorre tra arte e vita, Godard sembra non volersi arrendere all’evidenza e, ponendosi come mediatore delle istante del cinema hollywoodiano e di quello neorealista, o meglio tra Méliès e i Lumière, dà vita ad un film in cui la finzione incontra e abbraccia la realtà, ma mai fondendosi in essa.
La verosimiglianza del film, il suo essere vita, Godard la rivela con la variabile velocità delle scene, col fatto che Anna Karina non sapesse che scena stessero girando e quindi che battute dovesse dire[2], con l’utilizzo più o meno costante del piano sequenza ― «[…] non quello elaborato da movimenti di macchina e di attori che sostituisce il decoupage classico ma quello fisso e impassibile della registrazione impersonale […]»[3] ― inteso come fedele riproposizione del reale, e ancora con le primissime inquadrature, anticinematografiche, con Nanà e Paul ripresi sempre di spalle, con la lettura per intero del Ritratto ovale di Edgar Allan Poe: tutte soluzioni volte a cogliere e a dar conto delle molteplici componenti del reale; eppure tutto questo non può che stridere con le altre scelte registiche, in primis la varietà dei registri (documentaristico, letterario, cinematografico) che caratterizzano le varie scene, la divisione in quadri, che se da un lato assumono il compito di catturare gli istanti di vita di Nanà evidenziandone la frammentarietà, dall’altro lato impongono una struttura narrativa eccezionalmente artificiosa utile «[…] per accentuare l’aspetto teatrale, l’aspetto brechtiano del film»[4].
E dove sta la realtà se il protettore di Nanà si esprime come un giurista, se la colonna audio di alcuni dialoghi viene soppressa per dar spazio alle nostalgiche didascalie da film muto?
Come può Godard auspicarsi che lo spettatore viva la vita di Nanà?
Semplicemente non può.
Godard è ben cosciente che la rappresentazione falsifica e quindi annulla la realtà[5], «[…] che un’immagine filmica non è che una regione di incontro, un’autentica zona di negoziazione tra alcunché di reale (la traccia di qualcosa che è stato) e alcunché di immaginario (l’elaborazione poetica di quella traccia,che la lavora e la piega a sé»[6], che già il pensiero, in quanto forza ordinatrice del mondo fenomenico, e per tanto accostabile alla messa in scena, sopprime l’azione e quindi la vita, togliendole la casualità e la varietà: «L’immediato è il caso. E nello stesso tempo è definitivo. Quello che voglio è il definitivo per caso»[7].
Sì, «[…] il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo»[8], ma è la verità del cinema, non la verità del reale.
Se, come dice Nanà, «le cose sono come sono, un messaggio è un messaggio, un piatto è un piatto, gli uomini sono uomini, e la vita è la vita», allora anche un film è un film e per tanto bisogna accettarlo come tale, bisogna accettare cioè il suo essere preordinato, sempre chiuso su se stesso; ogni film, di qualunque natura esso sia, rimane sempre metafora del destino: non ha e non può mai raccogliere in sé quella casualità e spontaneità che caratterizza il mondo reale, anche quando ha la presunzione di raccogliere e ritrasmettere il reale così com’è.
Allora perché far finta che non sia così? Perché fingere che quel che si sta mostrando sia reale, quando ormai tutti, regista e spettatore, sanno che non è così?
Il proposito godardiano è di palesare il carattere finzionale del film, rendendolo evidente e quindi annullandolo, così, ponendosi al centro della tenzone tra vita e rappresentazione, cioè distaccandosi dalla realtà e allo stesso tempo dalla finzione, Godard non solo ripropone i meccanismi che soprintendono i processi percettivi umani (il dialogo tra Nanà e il filosofo la dice lunga anche su questo argomento) ma ci da conto di un lutto, anzi, elabora un lutto, quello per la morte della realtà stessa.
«Credo che s’impari a parlare bene solo quando si ha rinunciato alla vita per un certo tempo», afferma Brice Parain, vero alter ego godardiano, che più avanti continua: «Dalla vita quotidiana uno si eleva a una vita… chiamiamola superiore. È la vita col pensiero. Però questa vita presuppone che si abbia ucciso la vita quotidiana, la vita troppo elementare».
Per poter comunicare quindi si necessita sempre di un distacco dalla realtà, di uno sguardo esterno e totalizzante, perché, come ci insegna la morte di Porthos raccontata sempre da Parain, il pensare, il riflettere la vita comporta la sua sparizione, la sua fine.
Ma se già parlando si compie un assassinio, allora il cinema si comporta da vero omicida, se non addirittura da vampiro.
Anticipando in qualche modo il Pasolini di Empirismo eretico, Godard sembra voler dimostrare che il cinema, attraverso il montaggio e la messa in scena, non può che annullare la vita. Il cinema quindi ― ma il discorso, è ovvio, è valido per l’arte in generale ― si configura come un processo di sintesi sottrattiva: per esistere deve uccidere la vita, perché solo rubando ad essa la sua vitalità esso può incorporarla e quindi esistere.
Non è un caso che la citazione da Poe occupi quasi per intero il penultimo quadro: Il ritratto ovale riassume i tratti salienti di questo discorso e la battuta pronunciata dal jeune homme – «è la nostra storia, un pittore che fa il ritratto alla sua donna» – funge da sigillo.
La realtà può essere rappresentata solo al costo della sua morte: morire per divenire immortale.
La finzione ingloba la realtà e così le didascalie de La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc,1928) di Dreyer valgono anche per Nanà, e anche in questo caso è possibile captare un’allusione al potere ordinativo del mezzo cinematografico: «Dio sa dove ci conduce. Noi capiremo la strada solo alla fine del nostro cammino», dove «Dio» è il regista e «la fine del cammino» è il film stesso, ovvero la messa in forma attraverso la messa in scena e il montaggio.
[1] Enrico Ghezzi, Godard: Lire sa vie, in Jean-Luc Godard. Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, minimum fax, Roma 2007, p. 6.
[2] « Anna … non sapeva esattamente ciò che avrebbe fatto. … ha recitato un testo come se non conoscesse le domande. Alla fine, si ottiene altrettanta spontaneità e naturalezza», Jean-Luc Godard, in Il cinema è il cinema, a cura di Adriano Aprà, Garzanti, Milano 1971, p. 184.
[3] Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p. 78.
[4] Jean-Luc Godard, in Il cinema è il cinema, cit., p. 185.
[5] «Il realismo, in ogni caso, non è mai esattamente il vero e quello del cinema è necessariamente truccato», Jean-Luc Godard, in Il cinema è il cinema, cit., p. 183.
[6] Cervini Alessia, Scarlato Alessio, Venzi Luca, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2010, p. 40.
[7] Ibidem.
[8] Le petit soldat (J.-L. Godard , 1960).