«J’aimerais savoir si c’est possible…».
È una bella musica il francese, se suona bene. In bocca a Sonia Alfano suona bene. È la seconda volta che la chiamo e la trovo impegnata in conversazioni transalpine. Stavolta mi è andata meglio: alla prima telefonata, giorni fa, credo di aver interrotto un’assemblea, o qualcosa del genere. Per questa seconda chiamata mi sono limitato a introdurmi mentre chiacchiera con alcuni funzionari a Strasburgo. Però è cortese: lascia tutto e mi concede un po’ di tempo. So che proprio il tempo è un fattore prezioso: Sonia è uno dei parlamentari europei più presenti. Perciò, sebbene mi piacerebbe parlare e parlare, mettere l’Europa come il prezzemolo fra le parole e farmi raccontare dei meccanismi, degli ingranaggi che muovono quei palazzi – perché l’Europa mi piace e mi piace farmela raccontare da chi la lavora – circoscrivo il discorso attorno a “La zona d’ombra”.
«Io non so che impatto avrà, è ovvio che mi aspetto che la gente possa scoprire situazioni che non conosceva e rendersi conto non che quel delitto sia il delitto più importante d’Italia, ma che di certo non merita – come non lo merita nessuna storia simile – il totale abbandono, il fatto di essere conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori».
Quando Sonia parla di quel delitto parla di suo padre, del modo in cui gli fu portata via la vita. È sempre strano affrontare discorsi di sangue con chi ha un legame forte coi protagonisti di vicende drammatiche, drammatiche e in casi come questo anche nere e dense come il petrolio. Piene, appunto, di zone d’ombra. È strano perché il distacco offerto dai canoni di un’intervista puoi avvertirlo come un involucro trasparente, e puoi guardarci dentro nelle pause fra la ricerca dei ricordi. Certo, sarebbe un errore. Perciò meglio parlarne e basta. In fondo l’intervista era un ferro del mestiere di Beppe Alfano, e Sonia lo sa. Beppe si occupava di affari, politica e mafia, e se ne occupò fino a quando non si scontrò con tre proiettili in via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto, l’8 gennaio del ’93. Qualche giorno prima aveva consegnato alle autorità dei documenti che parlavano di scoperte sulla provincia di Messina, notizie del calibro di un Santapaola che di nome faceva Nitto e che pare si nascondesse proprio vicino casa sua, lì nella Barcellona di Sicilia. Solo che all’ombra di quei tre proiettili sparì tutto. All’opinione pubblica rimangono solo quattro processi senza risposte, e l’ostinazione di una figlia che, con la stessa determinazione del padre, si è ritagliata uno spazio lungo come l’Italia e largo come l’Europa, uno spazio che le permette di evitare che si abbassi il sipario attraverso azioni come questo libro, appena pubblicato da Rizzoli.
«È un libro che attraverso me racconta la vita quotidiana della mia famiglia. Racconta la mia storia, quello che mi ha costretto a “rialzarmi”. E le difficoltà burocratiche, le difficoltà economiche. La voglia di mettere anzitutto sotto gli occhi della magistratura, ma anche sotto gli occhi della collettività, elementi di un’indagine chiarissima che invece qualcuno ha voluto non uscissero fuori, e oggi sappiamo chi, visto che a giorni ci sarà il rinvio a giudizio per il pm Olindo Canali». Sonia spiega come si cercò di seppellire la vicenda di suo padre sotto il fango ammucchiato fra storie di donne e di pedofilia, e commentiamo la cosa come il più classico degli elementi di depistaggio, usato come ossimoro, come elemento stridente e perciò eclatante da piazzare in mezzo alle vite di gente come Beppe Alfano o come Pippo Fava, distintisi invece per vite luccicanti d’onestà e condotta morale buona per tenere sempre la testa alta. «Devo dire – continua – che ho incontrato molti magistrati che sanno perfettamente che cos’è la giustizia a Messina e in provincia e che non dico si siano sentiti in colpa, ma che hanno tenuto quasi un atteggiamento di imbarazzo… Non tanto per le denunce fatte da noi nel messinese – dove ci sono chiaramente delle eccezioni positive – quanto per il pessimo scenario che si è venuto a creare a seguito di vicende come quella di Graziella Campagna o Attilio Manca o Adolfo Parmaliana, vicende che peraltro tratto nel libro. Storie davanti alle quali la giustizia si è chiusa a riccio e, anzi, ha cercato di stendere in qualsiasi maniera una verità quanto più prossima…».
È un bel parlare con Sonia. Ogni tanto cade un po’ di francese nell’incontrare qualcuno, e se lo scambio di battute dura qualche secondo in più pare quasi d’essere in un caffè storico di rue du Temple, nel cuore di Parigi. Quando l’intervista diventa un dialogo le chiedo cosa è andata a cercare fra le pagine non appena ha avuto la sua copia, e mi trovo di fronte a una risposta inattesa: «Non l’ho ancora visto, il libro…». Troppi impegni, troppa UE e poca provincia di Messina, così discutiamo della sua presenza fra i banchi dell’Europa politica, del fatto che è stata votata (fra tutti i 736 europarlamentari) come quella più vicina ai cittadini (in base alle presenze, alle interrogazioni e alla tipologia di voti in seduta plenaria). Poi però confessa che non appena lo avrà tra le mani, il libro, andrà a rileggere dei momenti in cui la sua famiglia ha appreso dell’omicidio, e subito dopo correrà a rivedere i momenti più lieti, come la visita a Correggio, «alla mostra di Ligabue e al concerto di Luciano». Riguardo la stesura spiega che «è stata un’esperienza unica, ma le ultime settimane è stata anche un’odissea: controllare virgola per virgola, evitare di dare un senso sbagliato ad una frase…». E proprio sul senso ci soffermiamo un attimo: parliamo della logica dello Stato nell’affrontare simili fatti, nell’eventuale analisi dello scenario davanti il quale si è giocoforza trovata nell’osservare gli equilibri di potere che negli anni di sommerso mafioso passando per i socialisti si sono spostati dal governo dei democristiani a quello che oggi va sotto il nome di centrodestra: «Beh, tutto quello che trovavamo nella DC oggi lo troviamo nel berlusconismo, perciò credo che dal punto di vista morale, prima che politico, bisogna dare un segnale forte…». Così diventa inevitabile la domanda sulla possibilità di una nuova candidatura regionale in Sicilia. «No», risponde con un sorriso che riesco a vedere all’altro capo del telefono. Mi racconta che fu un’esperienza bellissima, e anche per questo probabilmente irripetibile. Ragioniamo sul fatto che in ogni caso il coraggio del padre non le manca, anche per il fatto che da antagonista di Lombardo e della Finocchiaro si è trovata da sola. E questo le è valso una notorietà dovuta e che adeguatamente sfruttata può dar risultati notevoli. «Sì, ma vuol sapere una cosa curiosa? – chiede. Su facebook ho due pagine piene, cioè con 5.000 “amici”, e una pagina “fan” con più di 30.000 iscritti, e sono profili aperti che gestisco personalmente: ebbene dopo tre anni, proprio ieri, cioè esattamente il giorno prima dell’uscita del libro, per la prima volta sono stata segnalata per entrambi i profili privati come persona che ha tenuto atteggiamenti e comportamenti offensivi, quindi mi sono state inibite molte funzioni, ad esempio quella del commento ai messaggi privati o dell’inserimento di link». Già, guarda il caso. L’imprevedibilità della rete. La stessa rete che la vede come uno dei cinque politici italiani più attivi, poi.
Il problema è riuscire a stare talmente bene sotto il sole da ridurre la zona d’ombra a un contorno fra i piedi.
Sebastiano Ambra