“Dimmi dov’è andato Stefano, lui dove sta; ha fatto errori come tanti in questa città / è scritta rosso sangue l’infinita lista di chi ha perso tutto, non soltanto la sua libertà”
È sinceramente impossibile approcciarsi alla questione riguardante la morte di Stefano Cucchi a cuor leggero. Sono passati cinque anni da quando è scoppiato il caso, legato sin da subito non tanto alla morte, quanto alla divulgazione da parte della famiglia delle foto del cadavere; non è da sottovalutare questo dettaglio, perché il caso cui questo articolo intende fare riferimento nasce lì. Ricordo bene quei concitati giorni del Novembre 2009: la copertura mediatica del caso (che in Italia coincide quasi sempre con l’esistenza stessa di un caso giudiziario) nasce con quelle foto.
La vicenda Cucchi ha visto l’assoluzione in appello di tutti gli imputati. Non sta a questo testo giudicare la sentenza, per la quale è già stato annunciato il ricorso in Cassazione da parte della famiglia del ragazzo; i pugni nello stomaco che personalmente ho percepito chiaramente sono dovuti ai gesti impunemente rivolti alla famiglia in aula subito dopo la sentenza. La vergogna nasce dalle dichiarazioni sfacciate di chi ignora l’empatia, di chi calpesta (o perlomeno ci prova) la dignità di due genitori che hanno visto il cadavere di loro figlio su un lettino quando ormai era poco più che un mucchio d’ossa. Stefano Cucchi pesava 37 chili e aveva ecchimosi ovunque, quando morì. La sua dignità era stata calpestata ben prima del suo decesso.
“Dignità” è una parola abbastanza delicata in certi casi, nel nostro Paese: il diritto a possederla spesso è di chi sa esporsi meglio mediaticamente. Senza le suddette foto, Stefano Cucchi sarebbe passato agli onori della cronaca come l’ennesimo tossico spacciatore morto perché non aveva rispetto della propria vita; non ci vogliono particolari voli pindarici per capirlo, dato che il sempre sobrio Carlo Giovanardi rilasciò dichiarazioni su questa falsariga al tempo, aggiungendo anche una presunta sieropositività del ragazzo, che tanto malattia in più o in meno cosa vuoi che sia. Quelle parole riprovevoli, inutile nascondersi dietro un dito, le avrebbero continuate a pronunciare in molti: la copertura giornalistica standard per casi simili è limitata alle fredde dichiarazioni ufficiali, per le quali era molto freddamente deceduto uno spacciatore che “rifiutava le cure”. Certo, approfondire caso per caso è un’impresa non da poco, ma spesso non si vede neanche il minimo spunto.
La battaglia della famiglia Cucchi va ben oltre il termine “dignità” di cui sopra: è uno dei più genuini casi della storia recente italiana di ricerca della verità. Contro tanti (fortunatamente non “contro tutti”), contro un pregiudizio tra i più radicati: loro figlio era quello “un drogato”, fa parte di quella categoria di persone che non sono ipocritamente accettate dalla società, anche se non commettono reati veri e propri (detenzione a parte, ça va sans dire); la loro esistenza in quanto tale ne giustifica il disprezzo sociale. L’indignazione scaturita dalla sentenza in appello è una piacevole sorpresa, perché implica una fame di verità e una voglia di giustizia solitamente inattesa in questi casi — a patto che non si scada nel giustizialismo, perché gli imputati sono innocenti fino a prova contraria ed è sempre bene ricordarlo, anche nei momenti all’apparenza più tetri. Non bisogna andare dalla parte sbagliata della barricata, impegnarci tutti quanti, concentrare il grido, la richiesta di trovare dei colpevoli per la morte di Stefano Cucchi nella giusta direzione: l’impegno della famiglia Cucchi è esemplare da questo punto di vista, e nessuno meglio di loro può incarnare la volontà di andare fino in fondo a questa faccenda.
“La verità è di piombo: non viene a galla, ma finché si ha forza in petto non si smette di cercarla”
Ammiro tantissimo, lo ammetto, Ilaria Cucchi. Il 31 Ottobre, quando ho letto la notizia dell’assoluzione, mi sono sentito male; non riuscivo ad accettare che, dopo averne passate tante, dopo essere riuscita nell’impresa di non far passare la morte di suo fratello come un semplice incidente, potesse perdere così tutto il lavoro svolto sino a quel momento — anche perché quelle lesioni qualcuno le ha procurate (e la formula con cui i giudici della corte d’Appello hanno emesso la sentenza è quella dell’insufficienza di prove). Una battaglia contro uno stato a parte, quello della divisa: è brutto da dirsi ed è spesso anche ingeneroso, ma in certe occasioni il celebre monologo di Ascanio Celestini, “La divisa non si processa”, torna alla mente. Però a me non piace attaccare le persone per categorie: è uno di quei vizi che sto provando a eliminare, perché ogni caso è diverso dall’altro e ACAB è uno slogan in cui non riesco a riconoscermi; no, questo non è un attacco a ogni divisa, ma è un attacco di pancia -chiedo perdono, ma concedetemelo- a chi ha avuto il coraggio di picchiare un ragazzo in stato di fermo, ammazzandolo di botte. Non è il solo: Stefano Cucchi è come mille altri, mille altri come noi, perché non serve essere criminali incalliti per sapere di rischiare, basta un errore quasi veniale. Cucchi è stato arrestato per spaccio, al netto delle approssimative leggi italiane c’è una quantità di reati ben peggiori, anche tra i più comuni.
Ho avuto una paura quasi infantile quando vennero divulgate quelle foto, che alcuni ancora oggi hanno l’ardire di definire figlie di malnutrizione e vita dissoluta; ho avuto una paura quasi infantile perché sapevo che quel letto di ospedale poteva accogliere me o chiunque conoscessi. E la paura più grande è quella che la possibilità di farla franca, per chi commette un atto del genere, è statisticamente molto alta.
Sta a noi non perdere la speranza che questo sistema possa cambiare. Sta a noi sperare che sul caso Cucchi si faccia chiarezza, che trionfi la giustizia. Sta a noi non perderci d’animo e lottare per avere tra le mani un mondo migliore. Per noi, per le persone a cui vogliamo bene, ma anche per quelle che non meritano di perdere la vita per una leggerezza (a meno che non riteniate la detenzione di sostanze stupefacenti una macchia così grande da meritare questo destino; in quel caso fareste bene a riguardare le vostre priorità). Perché potrebbe capitare a chiunque, come testimonia la manifestazione FIOM a Terni, di beccare qualcuno con la legge sul vestito che esegue un ordine assurdo o si è semplicemente svegliato con il piede sbagliato.
Perché potremmo essere tutti Stefano, Federico, Gabriele. Sta a noi, sempre, restare umani.
“Dimmi tu che fine ha fatto Federico / da solo quella notte, senza nessun amico / ha incontrato quattro stronzi con la legge sul vestito / hanno spezzato i manganelli per mostrargli che cos’è proibito”
(i tre versi in corsivo sono estratti da “La Collina”, di Lucci Brokenspeakers)