Stragi e martiri nella Palermo anni Ottanta

Palermo, in via Cavour e un tranquillo pomeriggio d’estate.

Sorrisi, ventagli e gelati. All’improvviso uno sparo,

poi un altro e un altro ancora.

Attimi di terrore, un silenzio assordante subito coperto dalle urla di donne atterrite e uomini sgomenti. Tre colpi di pistola e un uomo perde i sensi, cade in terra. Quell’uomo perde la vita e Palermo perde l’ennesima battaglia. Così il 6 Agosto 1980 Gaetano Costa, Procuratore Capo del capoluogo, viene brutalmente ucciso da due sicari in motocicletta. Gli anni Ottanta si aprono con un altro omicidio e anche questa volta si tratta di un crimine di mafia. Ed è solo l’inizio. Presto Palermo si trasformerà.

L’escalation criminale la renderà irriconoscibile: spari e sirene spaventeranno sempre più spesso i cittadini, i telegiornali non faranno che declamare tristi annunci di morte, le strade cesseranno di essere sicure, per chiunque. A nulla serviranno le parole del Cardinale Pappalardo, che dal pulpito del duomo palermitano condannerà la criminalità organizzata e ne maledirà i profitti. Per le strade della città il sangue continuerà a scorrere, le morti si susseguiranno e ai più non resterà che rimanere a guardare. Vincenzo Vasile, caporedattore de L’Ora e corrispondente siciliano de L’Unità, partecipa alle vicende palermitane con rabbia e frustrazione, senza mai rinunciare a documentare il dramma che la sua città stava attraversando. Penna brillante la sua, pungente e sagace, ancor oggi ci offre una panoramica della Palermo anni Ottanta: una Palermo di delinquenti ma nello stesso tempo una Palermo di eroi. Cosa successe dopo l’omicidio del Procuratore Costa? “I delitti continuarono a succedersi, le cose non andavano affatto bene. Nel 1982 mandarono qui in Sicilia il Generale Dalla Chiesa: lo Stato aveva capito che bisognava aguzzare l’ingegno, trovare una strategia valida quantomeno per arginare il fenomeno. Anche in questo caso però niente è andato per il verso giusto: dopo soli cento giorni dal suo insediamento Dalla Chiesa si trovò isolato, per non dire ostacolato. Non dalla popolazione, si badi bene. Il popolo palermitano appoggiava l’operato del Generale, erano le istituzioni a non sostenerlo. Ricordo che durante una conferenza stampa gli chiesi se pensava che gli venisse negata la possibilità di agire come avrebbe voluto. Lui ci pensò un po’ e rispose: Sai, mi sento un po’ come il passeggero di un autobus affollato. Per andare avanti devo farmi strada a forza di spintoni e gomitate. Non c’è altro modo. Naturalmente tutto questo non era attenzionato dai media: l’intera nazione si soffermava soltanto sui fenomeni terroristici e ciò che accadeva in Sicilia restava ai margini. I giornalisti venivano qui in occasione dei grandi delitti di mafia. Noi tentavamo di spiegar loro come stavano le cose, ma era tempo perso. Le cronache risultavano comunque carenti, c’era una seria impreparazione culturale in merito.” Sembra che dopo l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa che le istituzioni si rendano conto di quanto la mafia possa essere pericolosa.

Ma che dire del popolo palermitano? Qual era la percezione dei cittadini?

“Inizialmente i palermitani rimasero attoniti, come se fossero paralizzati da continui elettroshock, uno più forte dell’altro. In seguito la piccola e media borghesia si convinse che per non cadere vittima della mafia bastava non interessarsi dei loro affari. Bisognava evitare di ficcare il naso nelle faccende altrui, tutto qui. Era solo una questione di indifferenza, pericolosissima indifferenza. Ad impicciarsi si rischiava di rimanerci secchi, quindi meglio ignorare il tutto. Si ammazzano fra loro, dicevano i più. Ma quando a morire furono magistrati d’alto rango, gente che si incontrava ai concerti, alle prime in teatro le cose cominciarono a cambiare. Era la cosiddetta gente perbene a perdere la vita: la mafia mieteva vittime anche fra i giusti. Ed ecco che l’opinione pubblica viene magicamente scossa. Spesso sento dire che la popolazione si è interessata del problema solo a seguito della morte dei giudici Falcone e Borsellino. Beh, non è affatto vero: la partecipazione popolare c’è stata anche prima, eccome se c’è stata! Si pensi che durante uno dei primi processi presieduti da Giovanni Falcone un collegio di donne, gente comune, incontrò Rocco Chinnici e chiese di costituirsi come parte civile. I giudici furono entusiasti naturalmente, ma a Palermo non trovarono nessun avvocato disposto a sostenere il comitato.

Dovettero far venire un avvocato da Catania, ma fu comunque inutile: la corte rigettò la proposta. Ad ogni modo Palermo non è rimasta a guardare, non voglio che si pensi questo. Chi combatteva la mafia negli anni Ottanta godeva di un grande sostegno popolare e mi duole constatare che oggi nessuno sembra ricordare chi, prima di Falcone e Borsellino, ha dato la vita per sconfiggere la criminalità. Persino il corteo in onore del Generale Dalla Chiesa è ormai un lontano ricordo, ma la colpa di questo è anche nostra. Noi c’eravamo ed era nostro dovere tutelare la memoria di eroi simili. Non ci siamo riusciti, non come avremmo voluto.” Ė proprio vero: quel sanguinoso decennio non fu soltanto morte e terrore, ma anche eroismo, audacia, lotta. Fu il decennio della Primavera Palermitana e degli appelli del Cardinale Pappalardo, ma fu soprattutto il decennio del Maxiprocesso.

Lei avrà sicuramente assistito almeno ad una delle tante udienze in Aula Bunker

Ci può rendere partecipe di un episodio, un particolare, un ricordo per lei significativo? “Certo. I ricordi sono molti, assolutamente chiari. Non ho dimenticato nulla. Ce n’è uno in particolare però, che vorrei condividere con voi: un giorno, in aula si sedette accanto a me Leonardo Sciascia. Proprio quel Leonardo Sciascia che si studia oggi nelle scuole di tutta Italia. Ebbene, era evidentemente scettico nei confronti dell’operato di Falcone e non faceva nulla per nasconderlo. Dopo aver assistito all’udienza però, magicamente si ricredette. E non stiamo parlando di uno qualsiasi. Si ricredette sul serio e lo dichiarò a gran voce. Per lui è sempre stato motivo di vanto riuscire a mettere in discussione le sue convinzioni, questa volta più che mai.” Anni Ottanta: stragi e martiri, criminali ed eroi. A Palermo gli omicidi sono all’ordine del giorno, fra cosa nostra e la magistratura è guerra aperta, una lotta all’ultimo sangue senza esclusione di colpi. I cittadini si risvegliano, chiedono giustizia, pretendono che tutto questo termini al più presto.

Uomini di grande levatura perdono la vita, ma lasciano il segno. E così si arriva al Maxiprocesso, con l’inedito coinvolgimento di un numero sconcertante di delinquenti. A raccontare tutto questo è di nuovo il giornalista Vincenzo Vasile, politicamente e socialmente impegnato nella lotta alle mafie.