Unire il simbolo pop per antonomasia con l’elemento fondamentale dell’artistica di base e della street-art: nel 2010 il progetto CocaColla nasce da questi presupposti, e si sviluppa in breve a livello underground, diventando un ottimo punto di riferimento nel settore. Il nome, più che deviare l’utente facendogli credere in un qualcosa di collegato alla famosa bibita, diverte; diverte perché è originale (nonostante il citazionismo), e perché è di impatto. Non tutti però hanno accolto con simpatia il tutto, in primis la celeberrima compagnia, che ha da qualche giorno fatto “recapitare due lettere di diffida, chiedendoci di ritirare le pratiche avviate per la registrazione del marchio e la cessione nei loro confronti del “nome a dominio” cocacolla.it”, come recita il comunicato ufficiale diffuso da CocaColla. Un comunicato dai toni comprensibilmente amari, dove viene spiegato il perché della chiusura (non ufficialmente imposta dalla più famosa compagnia, ma è stata consigliata da “uno specialista in diritto industriale e in proprietà intellettuale” che “analizzato il caso ci ha convinto che fosse meglio mollare tutto, perché andare avanti in un’azione legale sarebbe stato un massacro, soprattutto per le nostre tasche”.
Insomma è l’esaltazione della legge del più forte, per una motivazione da un certo punto di vista condivisibile (i due nomi sono effettivamente -e logicamente- molto simili), ma che appare decisamente esagerata, dati anche i diversi rami nei quali operano le due compagnie. È vero che CocaColla non è più un’azienda di nicchia (un milione e cinquecentomila visitatori unici nel primo anno di vita parlano da sé), ma sicuramente il successo non è dovuto a un eventuale sfruttamento di un marchio, né tantomeno all’altrettanto eventuale poca furbizia di chi, approcciandosi a CocaColla, pensa di trovarsi di fronte un prodotto abbinato alla quasi omonima bevanda. Ecco, anche in questo la Coca Cola fa un ragionamento forse sbagliato, quasi a voler umiliare le facoltà intellettuali dei suoi consumatori; sì, probabilmente è normale voler difendere i propri interessi, ma ciò non toglie che la totale diversità dei servizi offerti e la differenza delle potenzialità economiche potevano essere un buon viatico per evitare le vie legali. Da quanto riportato nel comunicato CocaColla non c’è stato nessun tipo di avvicinamento, ma solo la richiesta di non registrare il nome e, anzi, della “cessione nei loro confronti del “nome a dominio” cocacolla.it”, pena citazione a giudizio. Insomma, l’elogio della legge del più forte, ma economicamente parlando. È triste leggere di storie del genere, di ragazzi che mettendosi di impegno riescono (e bene) in un settore che evidentemente li appassiona, ma una multinazionale li costringe a chiudere, perlomeno in queste vesti; sì, cocacolla rinascerà, come si può facilmente intendere dal comunicato. Tornerà con un altro nome, ma con il medesimo cuore e -probabilmente- con lo stesso, ampio giro di contatti che negli ultimi giorni ha fatto trendare su Twitter l’hashtag #supportcocacolla, con messaggi che hanno preso in giro la più famosa bevanda al mondo, criticandola aspramente e prendendo le difese di un blog che, nel suo piccolo, si è costruito uno spazio importante nel suo settore.
E le critiche si sono spinte fino alla decisione presa da alcuni di non acquistare più la Coca Cola, preferendo bere altro pur di non finanziare chi, a loro modo di vedere, ha commesso quasi un abuso. È veri: legalmente le basi per un’azione probabilmente potevano esserci, ma ciò non toglie che sembra un modo barbaro per ottenere ragione, specie quando sei una delle aziende che fattura al mondo e ti schieri contro un semplice blog.
Dice un famoso detto che “per un punto Martin perse la cappa”; riadattandolo per l’occasione potremmo dire che per una L la Coca Cola ha guadagnato il dominio (ma, forse, perso un po’ la faccia).