Teatranti

Teatranti (Pungitopo 2013) è il nuovo volume di Vincenzo Bonaventura, una miscellanea di articoli (già pubblicati dal critico a partire dagli anni ’80 e prevalentemente sulla “Gazzetta del Sud”), accomunati da una medesima tematica: il teatro.

Come indica lo stesso titolo l’attenzione si focalizza su non tanto sulle funzioni e i ruoli di attore e regista, ma molto più profondamente su chi “fa il teatro”, chi fa di questo azione continuativa. Vengono così raccolti oltre 30 articoli corredati, da un apparato di note bibliografico e critico, che illustrano (secondo l’ordine alfabetico) il “teatrare” di Julian Beck, Samuel Beckett, Biagio Belfiore, Paola Borboni, Lilla Brignone, Peter Brook e Jerzy Grotowski, Gabriele D’Annunzio, Eduardo De Filippo, Rossella Falk, Giuseppe Fava, Dario Fo, Jean Genet, Eugène Ionesco, Beniamino Joppolo, Alberto Moravia, Salvo Randone, Leonida Rèpaci, Mariano Rigillo, Enrico Maria Salerno, Stefano Satta Flores, Jérôme Savary, Leonardo Sciascia, Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Luigi Squarzina, Konstantin S. Stanislavskij, Giorgio Strehler, Giovanni Testori, Aroldo Tieri, Leopoldo Trieste, Anatolij Vasiliev. E ancora lo Stabile di Catania, il Piccolo Teatro e  Strehler, lo psicodramma.

Come segnalato nella “Premessa”, il motore che ha spinto a confezionare in un unico volume i Suoi articoli è stata una spinta “autogratificante” (e non “autocelebrativa”), in “risposta” al passare del tempo. Ma immaginandosi lettore del Suo libro cosa cercherebbe in questo? E cosa vorrebbe da autore che il Suo lettore trovasse?

– Da lettore credo che cercherei in questo libro un aiuto a capire il teatro del Novecento, con i suoi pregi e con i suoi difetti, attraverso i grandi come Beckett, Ionesco, Eduardo, Fo, Strehler eccetera. Perché è stato un secolo in cui molto è cambiato sul palcoscenico ed è giusto che lo spettatore sia consapevole non solo di ciò che ha visto ma anche del perché lo ha visto. E poi vorrei trovare informazioni su una serie di grandi che, per varie ragioni, sono rimasti un po’ nascosti nelle pieghe del tempo, spesso capace di cancellare ingiustamente. Vorrei che il lettore trovasse proprio queste cose che ho detto: autori quali Beniamino Joppolo e Leopoldo Trieste (conosciuto invece solo come attore) meritano molta attenzione.

La scrittura come “fermo” al trascorrere degli anni, un “fermo” che permette di riguardare e riconsiderare tutto: cosa è rimasto adesso delle opinioni trascorse? sono variati gusti e parametri?

– Nessuno può rispondere a questa domanda meglio di Peter Brook che, non a caso, è il mio “teatrante” preferito. Mi affido, quindi a una sua citazione che ho inserito all’inizio del mio libro: «Non ho mai creduto in un’unica verità, né in quella mia né in quella degli altri; sono convinto che tutte le scuole, tutte le teorie possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente e assoluta identificazione con un punto di vista. A mano a mano che il tempo passa, che noi cambiamo, che il mondo cambia, tuttavia, gli obiettivi si modificano e il punto di vista muta. Rivedendo i saggi scritti nell’arco di molti anni e le idee esposte in tante occasioni e nelle più disparate, mi colpisce ciò che in essi rimane costante. Se vogliamo, infatti, che un punto di vista sia di un qualche aiuto, bisogna dedicarvisi con tutte le nostre forze, difenderlo fino alla morte. Nello stesso tempo, però, una voce interiore sussurra: “Non prenderti troppo sul serio. Tieniti forte e lasciati andare con dolcezza”». Sicuramente ho evitato di prendermi troppo sul serio, ma è rimasto immutato un punto di vista: quello di ammirare sempre chi ha vissuto il mestiere del teatro con sincera passione.

Rimanendo ancora sul “passare degli anni”, “una sorta di scivoloso piano inclinato”… che trasformazione subisce secondo Lei lo stesso piano dentro la dimensione del palcoscenico?

– Attorno a un comune sentire, il mondo cambia, si evolve e altrettanto spesso si involve. E rimane contraddittorio. Oggi molti degli spettacoli citati nel libro sarebbero impensabili perché troppo lunghi o con una distribuzione di attori troppo nutrita per le tasche di chi produce. Eppure a Siracusa ogni anno una moltitudine di gente assiste alle Rappresentazioni classiche rimanendo seduta per ore in una delle situazioni più scomode possibili. Per capire il fenomeno bisognerebbe fare uno studio sociologico e antropologico sulle diverse motivazioni.

Come crede che il rapporto così intimo col teatro – ma vissuto dall’esterno, da osservatore critico – possa aver influito nella Sua formazione intellettuale?

– È stato fondamentale! Ancora oggi ricordo perfettamente la messinscena di “Adelchi”, la tragedia di Manzoni che Vittorio Gassman nel 1960 portò in giro in tutta Italia sotto un tendone da circo. Avevo 14 anni, avevo già visto altri spettacoli e fin da bambino mi piaceva sentire la prosa alla Radio (allora si usava). Il tendone fu montato nell’attuale Villetta Quasimodo, di fronte all’Hotel Royal (allora era un immobile più antico e più bello e si chiamava Albergo Reale). Già pensavo fortemente di diventare giornalista, e capii che anche il teatro avrebbe avuto inevitabilmente a che fare con il mio lavoro. E poi al Liceo Maurolico trovai la professoressa Cincotta Musumeci che raccontava il teatro antico con piglio moderno. E mi tracciò la strada.

 Aprendo il sipario del Suo libro si trovano i Suoi articoli di una vita in scena, come dei personaggi… Ed in effetti, a dispetto delle diversità tematiche e temporali di ogni articolo, il volume risulta decisamente unitario, come se i singoli pezzi fossero da sempre stati progettati in un piano d’insieme. Forse il volume porta in scena più che una memoria testuale, una memoria intellettuale, una dimensione da sempre coesa: la Sua… È stato gratificante come nelle aspettative vedersi sulla scena letteraria da regista e protagonista?

– Lei dice qualcosa che mi appaga e mi lusinga.  Credo che in una serie di scritti debba sentirsi la dimensione dell’autore anche se, in questo caso, non può essere il protagonista davanti a cotanti personaggi. Ma regista del libro sì, ho cercato di esserlo. Ed è stata un’esperienza gratificante.

Vincenzo Bonaventura, giornalista professionista dalla lunga carriera, tra Milano e Messina, per oltre trent’anni è stato critico teatrale del quotidiano “Gazzetta del Sud” e socio attivo dell’Anct (Associazione nazionale critici di teatro). Tra le sue pubblicazioni, “Giovanni Paolo II. 1978-2003: i 25 anni del Papa che ha cambiato la storia” (Milano, 2003), “La Sicilia al tempo del Grand Tour” (Messina, 2009). Per i ragazzi ha scritto i racconti “Hercules” (Milano, 2000) e “Annibale” (Milano, 1996) e la riduzione di “Nostromo” di Conrad (Milano, 1998). Nel 2008 ha ideato e curato il libro “Cara Messina… (Manifesto ideale degli intellettuali messinesi della diaspora)”, che raggruppa le testimonianze di settanta personalità, pubblicato in occasione del centenario del terremoto del 1908.