Testimonianza dall’Afghanistan

Le terze elezioni presidenziali dell’Afghanistan democratico post invasione sono state un successo. Le prime stime della commissione elettorale (l’Electoral Complaints Commission) parlano di un’affluenza del 58%. In sostanza hanno votato circa 7 dei 12 milioni di aventi diritto. Nel 2009 questa percentuale si fermò al 31,4, mentre nel 2004, le prime elezioni libere, l’entusiasmo portò alle urne ben il 76,9% dei votanti. Lo ha comunicato il capo della commissione elettorale, Ahmad Yousuf Nuristani, il quale ha però aggiunto che si tratta di stime preliminari. A testimoniare la voglia di democrazia di questa martoriata nazione dell’Asia centrale, le lunghe file ai seggi che si sono viste per tutta la giornata di ieri, praticamente in tutte le città. Tanto che alcuni sono stati autorizzati a restare aperti un’ora in più, mentre altri non hanno potuto far votare le persone a causa dell’esaurimento anticipato delle schede. Si è chiusa così, almeno ufficialmente, l’era di Hamid Karzai, l’unico uomo che ha guidato ininterrottamente il Paese dall’invasione angloamericana avvenuta in seguito all’attentato alle Torri Gemelle del 2001. Quella che ha dato il via al più lungo conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti. Karzai guida il Paese dal 2002, quando venne nominato capo dell’amministrazione transitoria afgana per poi diventare il primo presidente eletto dal popolo, per ben due mandati. Almeno ufficialmente ora è fuori da giochi visto che la Costituzione ne vieta un terzo. A prendere il suo posto si erano inizialmente candidate undici persone, forse è superfluo aggiungere, tutti uomini. Quattro si sono ritirati, compreso Qayum Karzai, fratello dell’attuale presidente, che si è fatto da parte per sostenere quello che sulla carta è l’uomo forte di queste consultazioni: Zalmai Rassoul, ex titolare del ministero degli Esteri e alleato chiave del clan Karzai, a cui è legato da un lontano rapporto di parentela. Anche lui ha inoltre trascorso in esilio gli anni del regime talebano (1994-2001), nel suo caso a Roma mentre i Karzai preferirono Quetta (Pakistan). L’ex ministro degli Esteri è infine l’unico ad aver candidato per la prima volta nella storia una donna al ruolo di vicepresidente. È Habiba Sarabi, ex governatore della provincia di Bamiyan, la valle a maggioranza hazara (che si contendono il ruolo di terza etnia del Paese assieme agli uzbeki col 9% a testa, dopo i pashtun 42% e i tagiki 27%), famosa per il sito archeologico delle due enormi statue di Buddha scolpite nella roccia, distrutte nel 2001 dai talebani e simbolo del loro oscurantismo, che ora l’Unesco vorrebbe ricostruire (costo del progetto 9 milioni di dollari, si dice fermo per la mancanza di sicurezza). In campagna elettorale, la Sarabi è stata quasi sempre al suo fianco, anche nelle regioni tribali del pashtun al confine con il Pakistan, dove prevale ancora l’idea che le donne debbano restare in casa senza istruzione.

Ad avere concrete possibilità di vittoria, altri due ex ministri. Il primo è Ashraf Ghani Ahmadzai, un’economista filo-occidentale quasi sconosciuto in patria ma già ministro delle Finanze ed ex dirigente dalla Banca Mondiale. Il secondo è invece il ministro degli Esteri del primo governo Karzai. Si chiama Abdullah Abdullah ed è considerato il vero sfidante del duo Karzai-Rassoul e non solo perché arrivò secondo alle scorse elezioni del 2009, decidendo poi di ritirarsi al successivo ballottaggio per amor di patria in quanto il Paese rischiava di finire nel caos a causa delle pesanti accuse di brogli che segnarono quel voto. Malgrado sia per metà pashtun (come Karzai, gli altri due sfidanti e gli stessi talebani), potrebbe fare la differenza in quanto è considerato un rappresentante dei tagiki, oltre che l’erede del leggendario leader anti-sovietico Ahamd Shah Massoud, meglio noto come il “leone del Panjshir”, storico capo dell’Alleanza del Nord, il fronte armato nato per combattere i talebani e per questo alleato degli angloamericani nell’invasione del 2001, diventato eroe nazionale in Afghanistan in quanto ucciso dai fondamentalisti islamici alla vigilia dell’11 settembre. I risultati finali di queste presidenziali verranno annunciati il prossimo 14 maggio, anche se il 24 aprile verranno resi noti quelli preliminari, dando così il tempo per i vari ricorsi. Entro il 7 giugno si saprà invece come sono andate le elezioni provinciali, accorpate alle presidenziali. Una sola cosa sembra certa: nessun candidato a succedere a Karzai dovrebbe avere la forza di vincere al primo turno, superando il 50% dei consensi. Anche stavolta si andrà di conseguenza al ballottaggio, molto probabilmente già il 28 maggio.

L’altro dato importante di queste elezioni è la partecipazione femminile. Dei circa 7 milioni di votanti, il 35 per cento erano donne. Un dato leggermente in calo rispetto al 40 delle scorse due elezioni ma comunque positivo viste le continue minacce talebane. Il problema delle donne (e dei bambini) resta uno dei nervi scoperti dell’Afghanistan. Per loro, la discriminazione inizia alla nascita. Anche se per fortuna le cose stanno lentamente cambiando. Almeno nelle città, i burqua (il capo che le copre dalla testa ai piedi senza lasciare scoperti nemmeno gli occhi nascosti da una retina) sono in diminuzione. L’istruzione, a loro vietata sotto i telebani, ora gli è garantita per legge. Nelle scuole, come anche nelle università, le donne ormai superano così il 40 per cento del totale. Tuttavia, soprattutto a quelle nelle campagne o che arrivano in città dalle periferie, può ancora capitare che vengano fermate e sfregiate dai talebani mentre vanno in classe. Impossibile avere stime accurate ma i casi di violenza sarebbero aumentati del 25 per cento negli ultimi anni. La maggioranza delle persone continua inoltre a considerarle cittadine di serie B. Permane infine ancora netta, nella società, la separazione tra uomini e donne. Anche se fanno di tutto per partecipare attivamente e combattere questa discriminazione. In Parlamento siedono ormai diverse donne, alcune delle quali sono anche ministro. Mentre a queste provinciali, su 2.700 candidati locali quelli di sesso femminile sono poco più di 300. Infine il mercato del lavoro, che si sta lentamente aprendo anche a loro. 

Per il futuro dell’Afghanistan questo è un voto determinante. E non solo perché sono le prime elezioni interamente organizzate dalle istituzioni afgane, alle quali da prima dell’estate è tornata in tutto il Paese la responsabilità di garantire la sicurezza. Le truppe della missione Isaf (International Security Assistance Force) della Nato, attualmente poco più di 51mila uomini provenienti da una quarantina di nazioni, anche se il grosso delle truppe sono statunitensi (33.500), inglesi (5.200), tedesche (2.730) e italiane (2.019), restano nelle basi e intervengono soltanto se chiamate da quelle afgane (tra esercito e polizia quasi 350mila uomini e donne), a loro supporto. I talebani, sempre più in difficoltà ma ancora in campo per colpire le deboli istituzioni locali e uccidere stranieri, da mesi avevano annunciato di voler impedire il voto mettendo a ferro e fuoco il Paese. Il ministero dell’Interno afgano ha parlato di 140 attacchi in 24 ore, tanto che almeno 211 seggi su 6.423 non hanno proprio aperto e in certe zone sono rimasti chiusi il 10 per cento del totale. Le vittime sono state 109, ha dichiarato un portavoce del dicastero, ma per la stragrande maggioranza si è trattato di talebani (89), cui si aggiungono nove agenti, sette soldati e quattro civili. Quelli feriti sarebbero invece stati 40. Numeri tutti da verificare che possono sembrare tanti ma per gli standard locali non si differenziano tanto da una normale giornata di primavera-estate, il periodo in cui scioltasi la neve e passato l’inverno i gruppi armati riprendono la loro campagna di sangue e terrore.

Il problema principale dell’Afghanistan resta infatti la sicurezza. Questo Paese dell’Asia centrale è grande il doppio dell’Italia, ma conta la metà dei nostri abitanti, tanto che nessuno nella sua storia è mai riuscito a controllarlo tutto, limitandosi a esercitare la propria egemonia sulle città o porzioni, anche ampie, di territorio. Nei grandi centri abitati c’è un checkpoint ogni poche centinaia di metri, ma anche polizia, militari afgani e guardie private armate di kalashnikov dappertutto. I quali hanno pagato un prezzo altissimo nel combattere i talebani: 13.729 morti e 16.511 feriti tra le locali forze di sicurezza, soltanto negli ultimi tre anni. Ma nonostante questo, nella parte meridionale persino i centri abitati restano di giorno sotto il controllo governativo mentre la notte tornano ai talebani. È proprio in quelle zone che è più diffusa la coltivazione del papavero da oppio, con cui nel 2007 l’Afghanistan ha battuto ogni record producendo il 130% del fabbisogno mondiale, un terzo in più di quello che tutti i consumatori del mondo usano in un anno. L’oppio e l’eroina (ormai raffinata direttamente in loco) sono del resto l’unico prodotto col quale il Paese partecipa attualmente al mercato mondiale, come abbiamo visto da leader incontrastato. L’economia è prevalentemente basata sull’agricoltura e l’indice di sviluppo umano, con il quale il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) calcola la salute di un Paese, in Afghanistan è talmente basso che come per l’Iraq viene calcolato in una tabella a parte. Ancora nel 2010 la speranza di vita era di poco oltre i quarant’anni (44,7 per gli uomini, 44,6 per le donne), il 72% della popolazione resta analfabeta, meno della metà ha accesso all’acqua potabile (48%), poco più di un terzo è alfabetizzato, oltre un il 60% vive sotto la soglia di povertà e la mortalità infantile è altissima: 134 bambini su mille muoiono nel primo anno di vita, che salgono a 199 prima di compiere 5 anni. Numeri drammatici. Per le strade regna inoltre in questi mesi un clima di incertezza che ha momentaneamente congelato la speculazione edilizia a base di narcodollari e sta facendo fuggire i capitali all’estero.

La missione militare internazionale Isaf della Nato sta del resto per giungere al termine, visto che si concluderà nel dicembre prossimo. Dal 2015 dovrebbe essere sostituita da una nuova molto più ridotta. Si chiamerà Resolute Support, una «differente e significativamente più piccola in termini di uomini impegnati sul terreno», ha spiegato il segretario generale della Nato, Ander Fogh Rasmussen, il cui obiettivo sarà a suo dire quello di addestrare e consigliare le forze di sicurezza afgane, nel tentativo di rafforzare le istituzioni. Dovrebbero viceversa rimanere invariate le diverse aree di responsabilità. All’Italia resterà quindi il comando della parte occidentale, alla Germania l’area settentrionale e agli angloamericani la zona più calda, quella meridionale. Non si sa invece quanti saranno i militari stranieri che dovranno restare nel Paese. La trattativa, per la nuova missione e soprattutto per il mantenimento delle basi, verrà condotta col nuovo governo che non vedrà la luce prima del sicuro ballottaggio delle presidenziali che abbiamo visto dovrebbe tenersi prima dell’estate. I raid americani, e soprattutto quelli condotti dai micidiali droni (gli aerei senza pilota), continuano intanto a mietere vittime civili. Negli ultimi mesi si sono di conseguenza pesantemente incrinati i rapporti tra Washington e Kabul.

Il presidente uscente Karzai, anche per questo, ha deciso di non firmare il Bilateral Security Agreement (Bsa), l’accordo di partenariato strategico tra Stati Uniti e Afghanistan, che consentirà agli americani dopo il 2014, e per i successivi dieci anni, l’uso di otto basi militari in altrettante province (Kabul, Mazar-i-Sharif, Herat, Kandahar, Helmand, Gardez, Jalalabad, Shindand) assegnate però all’esercito afgano, cui si aggiunge quella di Bagram (poco fuori la capitale) a esclusivo uso statunitense. Il Bsa prevede anche la possibilità di continuare a eseguire azioni militari nel Paese e l’immunità per le truppe americane, che saranno sottratte, in caso di reato, alla giurisdizione dei tribunali locali per essere giudicate negli Usa. L’accordo prevede infine il sostegno statunitense in caso di conflitto, altra fondamentale garanzia in un Paese sul quale premono l’Iran da un lato e il Pakistan dall’altro. Tutti i candidati a prendere il suo posto hanno già fatto sapere che lo firmeranno. Il Bsa, al quale se ne aggiunge un altro analogo con la Nato, è del resto l’unico modo per continuare a ottenere la montagna di finanziamenti internazionali che consente allo Stato afgano di tirare avanti. Stiamo parlando di 4,1 miliardi di dollari l’anno, di cui la metà pagati dagli Stati Uniti, il resto a carico degli alleati, Italia compresa. E dei 15,6 miliardi di dollari di prodotto interno lordo, ben 6 sono aiuti dall’estero. In caso di mancata firma è stato già minacciato l’immediato ritiro delle truppe e l’azzeramento dei finanziamenti.

Alessandro De Pascale