Tremate, tremate, le streghe ci sono sempre state

Si può raccontare con ironia e leggerezza del ruolo di presunta subalternità delle donne siciliane rispetto ai loro legittimi mariti senza tradire il senso delle loro tragedie, delle sofferenze, delle insoddisfazioni coniugali, delle angherie secolarmente sopportate, dei loro amori più o meno segreti? La risposta è si, si può! Ed è proprio questo il leitmotive che permea lo spettacolo di e con Silvia Martorana Tusa, “Veleni di famiglia ovvero le femine velenose”, andato in scena ieri sera al teatro Garibaldi di Palermo. Uno spettacolo divertente e tragico insieme.

Silvia, da dove trae origine il tuo lavoro?

− Tutto ha avuto inizio con lo studio degli atti processuali della Vecchia dell’Aceto, alias Giovanna Bonanno, finita sulla forca per i numerosi casi di avvelenamento che le furono attribuiti. Lo studio fatto attorno a Giovanna Bonanno ha aperto un varco che mi ha condotto dentro un universo  sommerso e silenzioso in cui le donne, sfruttando a loro vantaggio il ruolo sociale storicamente affidatole, quello di dispensatrici di cibo nel rassicurante focolare domestico, ne approfittarono per far fuori mariti troppo oppressivi e violenti. O, semplicemente, per riconquistare una nuova libertà per amore di un altro uomo.

Un viaggio attraverso i secoli, nato fra i vicoli, nei bassi maleodoranti di Palermo, nelle confidenze appena sussurrate fra donne perché, si sa, la parola migliore è quella taciuta. Un viaggio nato in Sicilia ma che attraversa lo Stretto per condurci nei vicoli di Napoli e per le strade di Roma, città in cui alcune delle nostre “eroine della liberazione” approdarono. Assistiamo così all’incremento delle loro fortunate carriere che le vede dividersi fra l’attività di dispensatrici clandestine di veleni e oculate  manager per bordelli di alto rango.

E così, oltre alla storia di Giovanna Bonanno apprendiamo del fiorente mercato messo in piedi da Giulia Tofana e del potente veleno che da lei trasse il nome: “l’acqua tofana”, appunto. La donna, agli inquirenti che infine la catturarono, confessò spavaldamente di avere ucciso più di seicento uomini, aiutata in questo dalle relazioni che intrecciò con numerosi chimici e farmacisti capitolini grazie alla sua proverbiale avvenenza e che le assicurò, oltre alla conoscenza scientifica, la possibilità di procurarsi gli ingredienti per i suoi veleni.

Lucrezia Borgia? Un falso storico, una macchina del fango si direbbe oggi. Nell’immaginario collettivo giunto fino ai nostri giorni, Lucrezia è l’avvelenatrice per eccellenza. Nulla di più pretestuoso, almeno questo è ciò che emerge dallo studio dei documenti che la riguardano. Oggi diremmo che fu vittima di un ben orchestrato attacco mediatico per colpire la donna, la sua intelligenza e il suo acume politico.

Un elemento emerge, netto e divertente al contempo, dal “cunto” di Silvia Martorana Tusa: le donne sono più sottili nell’orchestrare le loro vendette. Mentre gli uomini usano la loro superiorità fisica per lavare col sangue l’onta del disonore; loro, le nostre “piccole donne”, conducono le loro guerre di “liberazione” dall’oppressione maschile nel silenzio perfetto, tra un sugo e un bucato, tra un allattamento e una visita di cortesia. Da dispensatrici privilegiate di nutrimento il cibo diviene, così, il veicolo perfetto per diffondere il veleno che uccide i loro mostri senza lasciare tracce, nell’impunità più assoluta. L’omicidio perfetto, il sogno di ogni assassino, diviene realtà grazie alle mani di altre donne. L’eliminazione fisica del marito diventa così l’unica via per la libertà, che permette di finire in pace i propri giorni senza dovere sottostare a continue violenze e vessazioni cui erano sottoposte le donne nel tacito consenso sociale.

Ma la cifra narrativa di Silvia Martorana Tusa e del suo spettacolo rimane la freschezza dell’ironia, strappando qua e là più di una risata; soprattutto nel finale quando, dopo avere elargito al pubblico presente un irresistibile vassoio di dolcetti passato di mano in mano fino a giungere al chitarrista che l’accompagna durante tutta la rappresentazione…”un” chitarrista? Un uomo, dunque?…finale col botto. Applausi. Meritatissimi.