Trenta donne migranti per un nuovo Umanesimo

 Nel grigiore preoccupante e spaventoso delle chiusure e cadute razziste alle quali oggi assistiamo, “Siamo qui”  è un’opera nuova e necessaria per diverse ragioni: in primo luogo,  le donne, che   sono il 53% sul numero totale dei migranti,   sono state  sempre oscurate e stigmatizzate nella lettura complessiva del fenomeno migratorio, ma  nella realtà sono portatrici di un modello di sviluppo diverso  che apre prospettive ad un umanesimo nuovo; in  secondo luogo si raccontano  facce inedite delle migrazioni femminili: non ci sono solo le migranti dell’est europeo, asiatiche, africane, ma anche le immigrate di seconda generazione, le Rom  e le Sinti, le immigrate che prendono la parola e si raccontano nei  libri; in terzo luogo  perché, con la forza e la semplicità delle storie vere,  Giusi Sammartino abbatte stereotipi radicati,  duri da scalfire: il primo stereotipo è  la condanna senza appello delle  “donne in viaggio e lungo le strade”. Le migranti, che da altri mondi giungono nel  Belpaese, terra pur più civile e ricca di quelle che lasciano, devono far fronte ad un immaginario culturale discriminante che le penalizza doppiamente rispetto agli uomini, che moltiplica la discriminazione   perché sono donne, perché straniere, perché spesso  povere. Le strade aperte del mondo non sono per loro.

Eppure tante di loro  sono riuscite a farcela,  rompendo lo stereotipo con fatica,
ostinazione e coraggio. e creando un modello nuovo d’integrazione.

Ma come sono riuscite  in un’impresa tanto ardua? È la domanda che
mi ha accompagnata lungo tutta la  lettura del libro, anche perché è  l’Autrice che la sollecita. Non solo la
sollecita, ma crea una sottile trama di fili che, come denominatori comuni,  legano tutte le vite, svelando le vie del
raggiungimento dell’obiettivo: un  approdo,
alla fine, felice.

Primo
filo: la  capacità  delle donne migranti  di tradurre l’ostilità ed il dolore in
opportunità e in capacità di resistenza.

  Silvia  che viene dalla Moldavia, Sonila  dall’Albania, Nadege  dal Camerun, Rebecca dalla Romania, Sihan dal
Marocco, e le altre migranti, sono così, 
ostinate e determinate, proprio perché hanno vissuto  l’isolamento e la solitudine, la nostalgia,   l’umiliazione,
 hanno affrontato e superato pericoli e talora
l’ostilità delle famiglie, soprattutto  dei mariti e dei padri che non le avrebbero
volute “mobili”. Il dolore vissuto non poteva essere vanificato.

Secondo  filo: conoscere chi ti ospita.

 Tutte le
30 migranti raccontano il desiderio di “capire” il Belpaese, di imparare
dall’Italia, di conoscere  la cultura del
Paese che hanno scelto o in cui sono approdate.  Vogliono studiarne la Storia, leggere le
parole dei   Poeti e delle poetesse, soprattutto appropriarsi
della Lingua. La lingua come ponte d’integrazione.

Terzo
filo: continuare ad imparare e la forza delle Radici.

 In tutte
è chiara la  consapevolezza che ci si
evolve attraverso la conoscenza e lo studio. Tante hanno studiato, e in Italia
continuato a studiare con sacrificio, seguito corsi di formazione, anche
serali, dopo i primi lavori, spesso  da
badanti e colf. Si sono reinventate, messe in gioco. Hanno colto opportunità,
sempre partendo dalle loro radici, riscoprendo pezzi di sé che la loro storia
aveva sepolto. I loro progetti si sono disegnati o ridisegnati in Italia:  così, ad esempio,  Nadege, dal Camerun, crea una sartoria etnica  che dopo gli abiti  passa a produrre accessori per la casa in
stile rigorosamente etnico, ma con uno sguardo al gusto  e alle stoffe d’occidente;  Tatiana crea 
l’associazione Assomoldava  ( uno
sportello di aiuto alle Moldave presenti nel nostro Paese; la marocchina Siham
a Roma fa nascere un  centro estetico di
ispirazione araba.

Quarto
filo: la solidal catena.

Le anima tutte un desiderio  di restituire agli altri e soprattutto alle
altre donne  una parte del dono che hanno
ricevuto, creando anche per  i  loro connazionali ponti, situazioni di aiuto. Ce
l’hanno fatta perché hanno ricevuto aiuto e solidarietà, restituiscono il dono
e lo fanno diventare lavoro (non solo per sé) e nuova costruzione di vita. Una
solidal catena, che nasce attraverso il più umano ed il meno industriale dei
metodi di comunicazione: il passaparola.

Sesto
filo: l’altra Italia e la riconoscenza

 In tutte
le Storie,  a fronte dell’inadeguatezza
delle politiche di accoglienza , l’Italia è un Paese di persone accoglienti,
senza le quali nessuna di loro ce l’avrebbe fatta. Ritorna  il disagio dello scollamento tra le Leggi del
Paese e la sotterranea e silenziosa capacità di accoglienza di tanti italiani.
Ricorre in tutte le storie la riconoscenza verso gli aiutanti e le aiutanti,
spesso incontrati per caso.

Ritorno
al punto di partenza,  raccogliendo  i fili che l’Autrice ha teso.

Osservate  tutte insieme 
le trenta donne migranti raccontate da Giusi Sammartino sono le facce
nuove e giovani di un modello di sviluppo diverso  che si apre ad un umanesimo nuovo fondato
sull’inclusione, sulla fusione dei vissuti, sulla creazione di ponti,
sull’ascolto di sé che si traduce nella conquista di  nuove opportunità per tutti e tutte: per chi
è accolto, ma, in un circolo virtuoso, anche per chi accoglie. 

La sensazione alla
fine della lettura del libro è che queste donne 
migranti portino cultura umana, più umana della nostra forse perché più
arretrata, perché la nostra è  falsificata
dallo pseudo-progresso . 

Per questo,
queste  storie vere, raccontate con
gentilezza e semplicità, senza retorica,  
chiamando per nome le persone di cui si raccontano le strade
attraversate,  non catalogando le persone
con etichette, documentando con onestà 
il racconto, ascoltando, sono anche uno strumento di  lotta gentile contro la discriminazione e,
perché no,   potrebbero essere una fonte
di ispirazione per chi amministra le politiche dell’accoglienza nel Belpaese.

Pina Arena