U CUNTU SICILIANU DELLE SUPPLICI

Si è concluso il 51esimo ciclo di rappresentazioni classiche promosse dall’INDA  presso il Teatro Antico di Siracusa; nel cartellone, che comprendeva anche la Medea e l’Ifigenia in Aulide, spicca sicuramente la riproposizione in chiave “vernacolare” delle Supplici del tragediografo Eschilo. La vita del  tragediografo ha interessanti legami con la Sicilia, sappiamo infatti che intorno al 470 a.C. Eschilo si recò a Siracusa , su invito del tiranno Gerone, per celebrare in una tragedia, Αἶτναι (Aetnae), la nuova città di Αἴτνη (Aetna) da lui fondata e morì  a Gela nel 455 a.C.

Le Supplici, rappresentata probabilmente per la prima volta nel 463 a.C. ad Atene, racconta delle cinquanta figlie di Danao supplicanti che fuggono con il padre dall’Egitto per sfuggire ad un matrimonio combinato con i cugini, ed è tornata in scena grazie ad una interessante ed insolita riproposizione moderna curata dal regista e cantautore ennese Moni Ovadia.  Il mito, dal quale la Tragedia antica prende spunto, nasce come canto narrato degli aedi e così un cantore siciliano,interpretato dal musicista Mario Incudine,  entra in scena con il suo carretto ad introduce la vicenda sospesa tra fantasia e verità. La Sicilia come Argo è una terra che accoglie che si compenetra nel dramma di un gruppo nutrito di donne supplici, straniere,  che chiedono il diritto all’amuri ed alla libertà al re Pelasgo, consapevole del fatto che senza dolore non v’è mai soluzione, e che vacilla tra due pensieri forti: respingere le donne e consegnarle al loro destino, venendo meno al dovere ospitale,  o correre il rischio di far vacillare “equilibri internazionali” ed arrivare al possibile scontro armato. Il re Pelasgo si mette in ascolto delle supplici ma è anche consapevole che, secondo la buona politica, si può accogliere solo se i cittadini, cioè il popolo sovrano, accetteranno questa soluzione; e nel momento del possibile capovolgimento di fronte e della vittoria della violenza sulle donne da parte dei cugini, che irrompono minacciosi sulla scena, è pronto a ribadire la sua scelta ed a respingere i modi bruti ed il male oltre il confine della democrazia possibile: “ Ora parlu a vui figghi ritruvati, pigghiativi i curaggiu e acchianati alla citati”.

Un cunto che declina la tragedia greca nei ritmi siciliani, intrecciandoli al greco moderno ed  innervando i versi in un ritmo incalzante, fortemente lirico e ricco di pathos per tutta la durata del dramma questo uno dei punti forti della originalissima rilettura e messa in scena  di Ovadia  nella quale il coro di donne non è tanto mosso dall’aspetto attivo della decisione e quindi dell’azione ma perlopiù schiacciato dalla sofferenza e dalle possibili conseguenze che vengono dall’attesa della catastrofe. 

Nel suo ruolo di Prima Corifea Donatella Finocchiaro incarna perfettamente la dolcezza e la determinazione del femminile, guida carismatica e motivatrice del gruppo che prova a trovare una soluzione in tempi rapidi e trova nel padre Danao il sostegno di un maschile positivo che è a favore della libertà.

Di fatto non c’è un evento culminante o cruento ma il protagonista è la supplica, nel ritmo montante del coro, che nell’epilogo diventa canto di gioia: “Gloria ‘e dei d’e cieli carichi d’allori a iddi sacrifici e iddi sacri onuri! Viva l’accoglienza e a libertà”.  

Versi siciliani che echeggiano come schegge di un dramma antico e moderno: il mare, ieri come oggi, diventa confine e viatico di storie drammatiche, di respinte e di accoglienze, di storie plurali che parlano di fusioni culturali possibili e complesse, di coabitazioni e di scontri.

Giuseppe Finocchio