Io ero lì qualche anno fa, ero sul suolo carsico con nonno LINO FELICIAN che raccontava la sua guerra, e mentre narrava il suo “ANNO ALL’INFERNO” ho rivissuto con lui quei maledetti momenti. Racconta che durante la guerra (marzo 1944) è stato immesso coattivamente nelle formazioni tedesche, non scegliendo l’adozione alle armi ma preferendo lavorare nell’organizzazione TODT come addetto a lavori di fatica e manovalanza. Mentre ci rechiamo verso la cosiddetta “Foiba di Basovizza” (quel pozzo minerario che divenne nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d’internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza) mi racconta della prima ondata di violenza che esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’ 8 settembre 1943, quando in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone, ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. È l’odio ideologico che testimonia la ferocia voluta da Tito che si scatena contro fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. La persecuzione prosegue fino al 1947 quando l’Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia, anche se per gli esuli non è ancora finita.
Trecentocinquantamila persone scappano dal terrore e l’Italia li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS. Per quasi cinquant’anni il silenzio avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. Solo il 10 febbraio del 2005 il Parlamento italiano ha dedicato la giornata del ricordo ai morti nelle foibe iniziando così un percorso per chi ignora quel periodo. Il ricordo dell’orrore è per nonno Lino una cicatrice che non guarirà mai. Il 25 luglio del 1944, trovandosi nel campo TODT di Prosecco, fu immesso nelle forze della Resistenza della Venezia Giulia, allora organizzate da formazioni slovene.
Dopo aver girato diverse località, fu trasferito nei dintorni di Novo Mesto (tra Lubiana e Zagabria) a Suhor, dove fu costituita la XXIV brigata fratelli FONTANOT, alla quale fu assegnato il compito di presidiare zone di prima linea. Nel suo libro “UN ANNO ALL’INFERNO” dice: ” prego di credere che quello che si leggerà, non presenta che in minima parte, ciò che i baldi giovani della FONTANOT hanno realmente sopportato negli undici mesi di lotta contro tutti i suoi avversari, siano essi stati i tedeschi, gli slavi, oppure la fame, il freddo e la stanchezza” e il
25 marzo del 1945 scriveva alla madre ”La vita è un inferno ma, con l’unione di tante volontà, ce la faremo a riportare questo sporco mondo a condizioni di una migliore esistenza, nel segno della Libertà”
Così fu: il 6 giugno del 1945, dopo un avventuroso viaggio, arrivato a Trieste apprende che la città era stata liberata dal IX Korpus Jugoslavo il primo maggio, ma soprattutto nonno Lino ricorda quella ferita alla sua mano destra che rimarrà indelebile nella sua mente nel ricordo di quel maledetto anno all’inferno.