Si è svolto a Giardini Naxos il XVIII Congresso Nazionale FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti, presieduta da Carlo Nozzoli): per pochi giorni l’Hotel ospitante è stato vivo di corsi monotematici, simposi, tavole rotonde, workshop, comunicazioni orali e presentazioni di poster. Un insieme di interventi di alta qualità che hanno affrontato le problematiche che quotidianamente vive la Medicina Interna.
E di non poco conto i risultati. Sono state presentate ricerche, infatti, che permetterebbero di individuare la cura per la trombosi e le malattie reumatologiche. Ma è anche altro a colpire specialmente un non “addetto ai lavori”. Uno spazio, riservato nel programma, alla presentazione di un libellum dall’intrigante titolo La kippà di Esculapio (Pungitopo). Questo studio di Giuseppe Sicari coniuga perfettamente le diverse formazioni dell’autore: nato a Capo d’Orlando (1933), laureato in Medicina, già caporedattore del TG1 e docente all’Università della Tuscia. E soprattutto il volume ha l’indubbio merito di riportare alla luce una zona d’ombra della storia siciliana, vale a dire la presenza di medichesse e medici ebrei nella Sicilia medioevale. Partendo dalla recente scoperta, presso una biblioteca tedesca, di un manoscritto, la copia cioè realizzata a Licata nel 1484 di un importante manuale medico medievale, Sicari, dopo aver fornito un’esaustiva rassegna dei medici ebrei operanti in Sicilia fra il ’300 e il ’400 con brevi note biografiche, cerca di delineare il profilo storico-culturale di questa ‘classe’, definendone formazione e competenze. Ed è proprio qui, come in delle scatole cinesi, che risiede il piccolo tesoro mostrato da Sicari e dal Convegno: la presenza di due ‘dottoresse’, Bella di Mineo e Vidimura di Catania, che esercitavano la professione medica già nel Medioevo.
Due nomi che sono stati i protagonisti e il senso di questo incontro all’interno del Convegno, di questa riflessione storica, nel senso più ampio del termine, aperta da Sicari, nel breve tempo di un’ora e di cui adesso riproponiamo una breve testimonianza: «Un articolo di felicita Andreotti e Filippo Crea dell’Università Cattolica di Roma, pubblicato qualche hanno fa, ma tuttora attuale […] analizza funzioni e presenza delle donne nell’ambito della cardiologia e della medicina in generale. Si pone l’accento soprattutto sul fatto che siano poche (rispetto ai colleghi uomini) le dottoresse che occupano posizioni dirigenziali nel settore ospedaliero. Il problema, a ogni modo, non è soltanto italiano ed europeo, ma è presente a livello mondiale.
Come ricordano i due docenti sopra citati, in molti Paesi europei le donne sono state ammesse a frequentare le facoltà di medicina soltanto agli inizi del Novecento. E in Italia? Dopo l’unità, il Regio Decreto 3 ottobre 1875 promosso dal ministro dell’istruzione di allora, Ruggiero Bonghi, stabilì che anche le signore potevano essere ammesse a frequentare tutti i corsi universitari, e quindi anche quelli di medicina. Per iscriversi, oltre al diploma di maturità, occorreva un “certificato di buona condotta”…
Per l’attuazione del decreto Bonghi bisognò, comunque, attendere il 1883.
[…]
Torniamo, dunque, al passato. Nel Medioevo, per esempio, al cosiddetto gentil sesso era tutt’altro che negato l’accesso all’università, dove le donne potevano studiare anche “arti e medicina”, conseguendo la relativa laurea. […] Questo atteggiamento di apparente liberà non era, però, il riconoscimento di un principio di uguaglianza fra i due sessi, ma rispondeva a precise richieste della società del tempo, alla crescente domanda di esperte della medicina in grado di assistere le donne durante la gravidanza, il parto e il puerperio. Si chiedeva, in sostanza, una figura professionale capace di assicurare prestazioni superiori a quelle delle normali ostetriche».
Lungo questo viaggio a ritroso i convegnisti sembravano ammaliati, come se avessero recuperato quella dimensione mitica in cui la medicina è nata, tra scienza e cultura. E per un’ora la macchina del tempo ha funzionato.