Una nuova donna riflessa nello specchio. La Lucia di oggi

Lucia Annibali non ci sta ad essere una delle – ahimè – tante donne vittime di violenza da parte di uomini che avevano detto di amarle. «Non posso continuare a nascondermi. Che vedano pure come mi hanno ridotta, non sono certo io che devo vergognarmi…». Così scrive nel libro “Io ci sono. La mia storia di non amore” pubblicato insieme alla giornalista Giusi Fasano. E Lucia non si è mai nascosta, anzi ha divulgato anche le immagini del suo volto distrutto dall’acido solforico che, la sera del 16 aprile 2013, due uomini di origine albanese le hanno gettato contro su “commissione” dell’ex fidanzato. In questi due anni, Lucia è cambiata. Nell’immagine riflessa nello specchio, così come nel proprio intimo. Lucia è una donna diversa. Una donna nuova. Abbiamo conosciuto il suo volto, che cambia un po’ ad ogni operazione – sette ormai, ma ce ne saranno altre – l’8 marzo del 2014. In quella occasione l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano le conferì la nomina di Cavaliere al merito. E tutti ricordiamo il rispettoso baciamano fatto a Lucia.

Ed oggi Lucia ha deciso di fare del proprio volto, che porta le ferite di un non amore, un monito per altre donne. Gira l’Italia, torna spesso a fare volontariato al Centro grandi ustionati di Parma, parla con i giovani studenti e con i colleghi avvocati. In soli tre giorni ha preso parte a sei incontri, senza sosta. Durante l’incontro promosso da Aiga, Ordine degli avvocati e FIDAPA (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) Messina, un momento toccante di riflessione e confronto con la “persona” Lucia, più che con l’avvocato Annibali.

«L’aspetto più interessante della mia vicenda – ha raccontato Lucia Annibali nell’Aula magna della Corte d’Appello di Messina – è che un avvocato si è ritrovato improvvisamente ad essere parte offesa. Con la consapevolezza di chi sa come funziona la macchina ed i desideri ed i bisogni di una persona che ha subito un torto. Ho imparato da mio padre, anch’egli avvocato, ad avere rispetto per chi deve giudicare, ma anche il contegno che ho tenuto in aula, mentre dentro speravo che chi mi stava di fronte vedesse e capisse quello che mi ero successo. Desideravo giustizia e che il mio dolore, anche se impossibile da riparare, potesse essere compreso. Eppure mi sono dovuta scontrare con i colleghi della controparte, che si sono permessi di minimizzare quanto accado e quasi di colpevolizzarmi. Hanno tentato di dipingermi in un certo modo, solo per convincere della loro versione chi doveva giudicare ».

Alla fine delle udienze, le porgevano la mano. «Siamo colleghi», dicevano. «Ognuno ha diritto di essere difeso – continua Lucia -, anche la persona più vile e malvagia. La differenza la fa il modo in cui il professionista agisce. Ancor di più è la persona che fa la differenza, perché l’avvocato è una persona. Si sa, il processo è un gioco delle parti, per forza di cose, ma non si deve perdere mai il rispetto della dignità umana».

La voce ferma e sicura di Lucia non lascia dubbi, anche se lei non lo ammette direttamente. Lucia non tornerà più ad essere l’avvocato Annibali. «Questo senso di insoddisfazione – precisa Lucia Annibali ad una domanda rivolta dal pubblico – è qualcosa che nasce molto tempo prima del mio incidente. Sentivo in fondo il desiderio di dare un senso più grande alla mia vita, occupandomi in modo diverso delle altre persone. Adesso è come se avessi questa possibilità. Forse occuparmi di sfratti o le lunghe attese in tribunale per poi fare udienza in cinque minuti, sono cose che non fanno più per me. Rimane un grande rispetto per la professione, ma difendere le donne – in un’aula di tribunale – non è lo scopo della mia vita, posso solo condividere la mia storia sperando che possa essere d’aiuto e di stimolo ad altri».

Lucia torna spesso all’ospedale di Parma, non esclusivamente come paziente. Le settimane trascorse in ospedale sono state l’esperienza più importante del suo “recupero” fisico e psicologico. «Sei da sola in un letto e devi affrontare un giorno dopo l’altro – spiega Lucia -. I giorni degli ustionati sono lunghissimi. Pensate poi che io non riuscivo a vedere. Non vedevo dove fossi, chi fosse con me nella stanza. In quella situazione ho trovato la pace e la forza dentro me stessa. Condividere il dolore con altri uomini e donne del reparto mi ha cambiata. È stata fonte di ispirazione».

E riconquistare giorno dopo giorno un pezzetto della sua autonomia, un quadratino di pelle scampato alla furia dell’acido, un movimento della mano, è stato come ricevere una grazia. «La rabbia a cosa serve in quei momenti? La sofferenza e la frustrazione che ho patito per colpa di quella persona sono finite quella sera di aprile. Ogni volta che torno in ospedale sulle mie gambe, è un momento di vittoria. Ogni volta mi ricorda da dove sono ripartita e dove sono arrivata. Il luogo in cui ho incontrato la Lucia di oggi».

Alba Marino