Bene Comune o Bene Architettonico

Prima di procedere all’intervista è bene fare alcune precisazioni: in linea generale noi abbiamo l’idea che il bene architettonico sia soltanto la grande opera del passato da tutelare e in questo senso esso rientrerebbe nel più ampio concetto di  bene storico-culturale. Tanto è vero che la nostra legislazione per esso prevede una tutela specifica attraverso il codice dei beni culturali e del paesaggio nel quale, appunto rientrano per definizione le opere architettoniche. Ciononostante, nessuno può negare che oggi all’architetto si richiede una diversa sensibilità e i famosi Renzo Piano o Massimiliano Fuksas stanno a dimostrare questa nuova sensibilità.

“Io sono stato nominato come esperto dell’amministrazione Accorinti, ci dice l’Arch. Luciano Marabello, nell’ambito di questa esperienza del laboratorio e con riferimento specifico alle “azioni” non solo sui beni comuni ma anche con riguardo  agli spazi urbani del patrimonio costruito. Campo ampio che comprende diverse competenze ma che rientrano tutte nell’ambito del laboratorio dei beni comuni.”

Come si rapporta il concetto di bene collettivo alla figura dell’architetto che di solito rispondere agli “interessi” della committenza privata o pubblica secondo un rapporto di do ut des?

Già storicamente l’architettura contiene un mandato sociale al suo interno, il quale può tradursi anche in una committenza chiara e quindi svolge un ruolo importante soprattutto nella costruzione della città. La costruzione della città, a sua volta, è sempre un qualcosa che sta a cavallo tra privato e pubblico, nel senso che non è né esclusivamente privato né esclusivamente pubblico. E questo proprio perché anche un oggetto privato, come ad esempio un giardino, nel momento in cui ha una sua relazione con lo spazio acquista una sua valenza pubblica,.

Sul mandato sociale dell’architetto, la figura di Renzo Piano che nelle sue opere tutela l’ambiente come si rapporta alla figura dell’architetto dei “beni comuni”?

“Il concetto di beni comuni non lo ridurrei solo a un fatto materiale, nel senso che le necessità materiali dei luoghi (ad es, una ristrutturazione immobiliare) si intreccia con il come le persone abitano quei luoghi, perché non tutto diventa bene comune.  Rischiamo di fare una gran confusione se non consideriamo che non tutto il patrimonio (ad es.  Comunale) diventa bene comune. Perché il patrimonio, ad esempio degli spazi della città, diventi un bene comune bisogna che tutti i soggetti possono usare questi beni e comunque li riconosca come tali.

Con questa risposta entriamo nel cuore della filosofia che dovrebbe essere a fondamento dei beni comuni, perché l’Arch. Marabello sottolinea la necessità non solo della condivisione di un bene o di uno spazio ma soprattutto del “riconoscimento” o meglio l’attribuzione di bene comune che di esso ne fanno con l’agire o ne danno col “sentire” i cittadini. Esempio semplice potrebbe essere considerato lo stesso “Stretto di Messina” ma per rendere le cose un po’ più complicate parliamo del semplice affaccio allo Stretto, la c.d. “passeggiata a mare”. In questo caso non vi è dubbio che vi sia il “riconoscimento” ma vi è anche l’uso libero e senza vincoli dell’area ?

La risposta, anche in questo caso è quella del Proff. Paolo Maddalena: “Il «territorio», in altri termini, appare come uno «spazio di libertà» entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità e i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva”.

Se questo è vero, che differenza c’è tra bene comune e bene collettivo ?

“Il bene comune, continua Marabello, diventa tale quando più soggetti condividono questi spazi, ad esempio un giardinetto non esattamente pubblico può diventare pubblico perché è utilizzato da più soggetti che riconoscono in quel luogo un luogo in cui si hanno relazioni sociali che lo rendono tale. Per cui non è detto che un bene collettivo- pubblico nella sua accezione proprietaria diventi di per sé un bene comune. Alcune volte abbiamo dei -cortocircuiti- per cui uno spazio semi-privato acquista in un quartiere un valore talmente forte per cui diventa un bene comune anche se la proprietà rimane privata”.

L’esempio dell’isola pedonale è quello che ha visto l’esperto condividere l’idea che essa pur essendo un bene pubblico che era utilizzato ai fini della circolazione stradale si sia trasformato in un bene collettivo dove convergono più soggetti che “a vario titolo ne hanno la cura, esercitano i loro diritti, l’abbelliscono, ecc.).

“Il compito dell’architetto è quello di immergersi nei processi sociali che non siano solo limitati al progetto o alla progettualità tecnica ed è questo lo scopo del laboratorio, innanzitutto cogliere quello che c’è già in città per stimolare la presenza attiva della cittadinanza. Pertanto faremo una ricognizione di quei beni, di quelle aree abbandonate, che possono diventare luogo sperimentale o di stimolo di questi processi sociali. In altri termini proveremo ad incrociare le richieste che vengono dalla cittadinanza per tradurle in politiche amministrative che nel rispetto delle competenze dei vari assessorati possano tradursi in atti concreti, regolamenti usi civici e quant’altro “.

Ipotizzando che questa esperienza vada bene possiamo ipotizzare anche la messa a disposizione di beni anche da parte di privati?

È stato già precisato che questa esperienza potrebbe riguardare anche delle aree private che sono in totale stato d’abbandono e che in qualche maniera abbiano una valenza per la città o per un gruppo di cittadini che riversano in questi spazi, in queste aree una idea. Perché non dobbiamo pensare solo in grande scala ma vi possono essere piccoli ambiti, in alcune zone, dove è più sentito il concetto di socialità dei ragazzini e quindi con l’uso collettivo del bene.

Possiamo provocatoriamente e nell’ottica di questa filosofia dire alla vecchia signora di lasciare i suoi beni al Comune invece che alle “Suore” ?

Anche in questo caso io non la vedrei solo dal punto di vista patrimoniale, io mi tolgo questa cosa… Ma “lasciare” alla città, la quale deve produrre dei regolamenti e delle disposizioni da cui emergano non solo delle risposte ai bisogni ma anche come sostenere questi beni.

In definitiva anche l’Architetto come l’Economista concludono i loro interventi con un cenno, anche legittimo, ai costi di gestione dei “beni comuni”. Dimenticano, tuttavia, che prima di parlare di costi, il bene collettivo e quindi la sua filosofia deve ancora nascere o quantomeno rinascere. “Una costante dei sistemi giuridici moderni è rappresentata dalla distribuzione dei beni in tre aree: privata, pubblica e collettiva…sono i rapporti qualitativi tra queste che connotano definitivamente un sistema»”, (Stefano Rotodà).

Pietro Giunta