Viaggio al termine del nulla. La grande bellezza

 

«Beauty is truth, truth beauty, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.»

 

John Keats

 

 

 

Il nulla

 

Ci si può immaginare che la maggior parte degli spettatori, dopo la visione dell’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino – vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e in lizza per l’Oscar -, si siano chiesti che senso avesse questo film incentrato sul nulla.

Difatti, è proprio il nulla la ragione ultima di questa pellicola, tanto che Sorrentino, anche soggettista e cosceneggiatore, ribadisce questo concetto e lo traduce, oltre che in immagini, anche in parola: la fa ripetere almeno due volte al suo protagonista, citando un aneddoto letterario: il desiderio, mai realizzato, di Gustave Flaubert di scrivere, appunto, un romanzo sul nulla.

Viene spontaneo chiedersi se il regista non solo si paragoni a Flaubert, ma pensi addirittura di essergli superiore, creando ciò che il grande scrittore francese non riuscì mai a realizzare.

Ma questo ha poca importanza. In realtà, la vera domanda dovrebbe essere un’altra: perché il nulla?

 

 

L’impero alla fine della decadenza

 

Ci sono due città in questo film. Quella che tutti conosciamo, ovvero la Roma capitale della cultura e del turismo, popolata da macchine fotografiche e giapponesi intenti a catturare quel che resta di un passato glorioso ormai estinto; quella dei proletari che si sciacquano le mani in una fontana pubblica; quella dei colpi a salve sparati dal cannone del Gianicolo.

Questa  Roma appare solo all’inizio del film ed è insolitamente pulita, quieta, ma destinata a morire, come un turista orientale colto da infarto, per lasciare spazio ad un urlo munchiano: siamo di notte, ad una festa e la musica è cambiata.

Ecco allora comparire l’altra città, la capitale della politica e della cultura, la Roma da bere dell’élite che guida il paese facendo trenini nelle terrazze che s’affacciano sul Colosseo.

La peste imperversa, Roma brucia, ma non importa.

È proprio in uno di questi party che incontriamo Jep Gambardella. Il protagonista, interpretato da un sempre più istrionico Servillo, festeggia i suoi 65 anni e lo fa insieme ai suoi amici e conoscenti: un vero e proprio caravanserraglio, un freak show senza freni composto da scrittori, autori televisivi, soubrette e attori più o meno noti, industriali maniaci del sesso, e poi ancora cardinali esperti di cucina, santone votate alla povertà che alloggiano in hotel di lusso e misteriose spogliarelliste in cerca d’affetto.

Stereotipi di un mondo culturale e sociale senza spessore, intenti (o condannati) a dire e fare sempre le stesse cose, intrappolati nelle loro velleità frustrate, nelle ossessioni patinate, nei rancori (s)velati; essi ritorneranno come fantasmi lungo il corso del film, in altre feste, altre (s)cene, sempre con le loro frasi fatte, la loro ostentazione e la loro volgarità, con la cultura nozionistica e superficiale di chi cita Proust accanto ad Ammaniti o di chi giustifica la nuova acconciatura definendosi “pirandelliano”. Pose da radical chic insomma, dalle quali però si affaccia sempre, ma con naturalezza, lo squallore più abietto.

Jep però fa eccezione, lui è la scrematura della crème de la crème, lui è un eletto, ha il dono della sensibilità, lui che dalla provincia andò a Roma, lui che scrisse un unico romanzo di successo, L’apparato umano, e che poi restò impigliato nella rete della mondanità. Personaggio bifronte, capace di guardare questa realtà in disfacimento dall’esterno, dall’alto di chi ha esperienza delle cose del mondo e può criticare e sputare fiele su tutto e tutti, senza però riuscire a distaccarsene, ma vivendola appieno, convinto anzi di poterla manovrare, di poter mandare all’aria la festa in qualunque momento.

 

 

La triste beauté

 

“Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla”, così Jep giustifica la sua impossibilità a scrivere un altro romanzo. Come dargli torto? Nella vacuità e nella vanità non c’è spazio per la bellezza, e l’arte, senza bellezza, è spacciata, non ha più tanto senso, tanto meno come provocazione fine a se stessa – una capocciata contro un muro di gomma piuma – o come esibizione di sé – un recital per l’amore ma senza amore. Allora, perduta la bellezza, non resta che fuggire, come faranno Romano (Carlo Verdone) e Viola (Pamela Villoresi) che abbandoneranno la capitale, oppure arrendersi allo stato delle cose, come Lello (Carlo Buccirosso), Trumeau (Iaia Forte) e Dadina (Giovanna Vignola), fingendo di vivere la migliore delle vite.

In  questo film anche l’amore non ha speranza, gli unici contatti umani risiedono nella carne, ma una carne deteriorata, putrefatta, strumento inanime di un mero esercizio fisiologico, e anche quando la vita sembra offrire la possibilità di un contatto sincero e profondo, ricompare la morte (effettiva e non metaforica questa volta): la relazione di Jep con Ramona (Sabrina Ferilli), la spogliarellista affetta da un misterioso male, è destinata ai vermi corruttori.

La dannazione dunque, la pena eterna, per chi ha venduto l’anima al Diavolo.

 

 

La città eterna

 

Che Sorrentino fosse fautore di un cinema barocco lo si era capito già ai tempi de Le conseguenze dell’amore e l’impressione è stata confermata dalle sue opere successive, qui però, l’estetica da videoclip, l’audace commistione musicale, la perfezione fotografica del fedele Luca Bigazzi, la mania della simmetria e degli ophulsiani movimenti di macchina, sembrano scadere nel più bieco formalismo. Il sospetto è che la forma serva solo da contraltare a un contenuto quasi inesistente, ma se la forma è eccessiva è soltanto perché essa è consustanziale alla forma delle vite che plasma. L’artificiosità della macchina cinematografica rispecchia quella dei personaggi-fantocci, la incarna e la riproduce.

E che dire poi del fatto che con La grande bellezza Sorrentino sembra abbia dato vita ad una sorta di sequel di La dolce vita, il capolavoro di Fellini del 1960?

I punti in contatto tra i due film sono evidenti: stessa ambientazione, geografica e sociale, stessa materia narrativa, stessa atmosfera circense e surreale.

Certo non mancano profonde differenze, prima fra tutti la capacità di Fellini di provare un profonda pietas nei confronti dei propri personaggi, mentre Sorrentino appare del tutto indifferente alle sorti delle sue caricature.

Così come non mancano ulteriori riferimenti alla filmografia del grande regista riminese, I vitelloni (1953) e (1963), e anche l’incontro casuale di Jep con Fanny Ardant richiama alla mente il cameo di Anna Magnani in Roma (1972).

Ma perché rifarsi a Fellini? Che senso ha?

Sarebbe da stupidi pensare che Sorrentino con questo film abbia voluto semplicemente omaggiare o addirittura plagiare il maestro..

Allora viene il dubbio che questo citazionismo sia frutto del tentativo di continuare a narrare una realtà – quella italiana e più specificatamente romana – che ha in Fellini il suo primo attento osservatore e, oserei dire, castigatore

Sorrentino si rifà indubbiamente al regista riminese ma, vero atto di umiltà, non lo nasconde, anzi evidenzia i punti di contatto e le analogie, riuscendo però a non perdere i caratteri distintivi del proprio stile di regia. Evidentemente il richiamo e il confronto con La dolce vita, e al mondo felliniano tout court, non solo sono voluti, ma sono giustificati dalla necessità di mostrare un mondo che in più di cinquant’anni è cambiato poco, se non per nulla: Roma, la città eterna, è eterna davvero.

 

 

La fine del viaggio

 

Sorrentino fa il moralizzatore, osserva i costumi dei suoi contemporanei, li mette a nudo, li critica.

Come Jep, è cosciente del nulla che lo circonda e, come Jep, alla fine, decide di dare un senso a questo vuoto. É vero, forse lo fa con troppa freddezza, con troppo distacco entomologico, ma probabilmente questo era l’unico modo possibile. Come si può parlare di una realtà che si sente distante e che si vorrebbe diversa, se non con disprezzo e alterigia? Come si possono rappresentare degli individui abbietti e corrotti se non come fantocci e burattini nelle mani del vizio e della meschinità? Come si può mettere in scena una realtà – già ritratta magistralmente da un genio- eternamente statica, martire di un circolo vizioso senza fine, se non recuperando quel modello ideale, insuperato e insuperabile? Infine, come si può raffigurare la bellezza, se essa è stata vilipesa, maltrattata e cacciata dal mondo?

Il film di Sorrentino non sarà un capolavoro, ma ha il dono di dire la verità – almeno su una parte del paese (l’Italia) e dei suoi abitanti (gli italiani) – e la verità, la più grande delle bellezze, non piace quasi mai.

Eppure, al di là di questo racconto del nulla, dietro questa cortina di nichilismo e cinismo – ma forse la parola giusta sarebbe “realismo” – un alito di speranza sembra venir fuori.

Parafrasando Céline e il suo Viaggio a termine della notte, citato all’inizio del film, verrebbe da dire che ciò di cui tutti abbiamo davvero bisogno è viaggiare con la mente, dandoci la possibilità di immaginare realtà altre, capaci di influire sul contingente e trasformarlo, migliorarlo.

È un viaggio che tutti possono fare. “Basta chiudere gli occhi”.