A Messina sentenza shock:

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A Barcellona Pozzo di Gotto va in scena “L’elogio dell’impunità”. La corte d’assise d’appello di Messina ha emesso la sua sentenza nel maxiprocesso denominato Mare nostrum, ribaltando il dispositivo di primo grado.

A Barcellona Pozzo di Gotto va in scena “L’elogio dell’impunità”. Potrebbe benissimo trattarsi di un adattamento teatrale metà commedia e metà farsa se nello sfondo non ci fosse la tragedia di una guerra di mafia che negli anni ’80 ha visto decine e decine di morti ammazzati tra la Piana di Milazzo e l’area dei Nebrodi, nella fascia tirrenica della provincia di Messina. Cosche contro cosche, famiglie contro famiglie, per accaparrasi appalti e subappalti del nuovo tracciato ferroviario Messina-Palermo e gestire discariche di rifiuti, cave e le colate di cemento che hanno devastato la costa e gli alvei di fiumi e torrenti. Omicidi e sparizioni forzate di anziani boss e piccoli spacciatori neanche maggiorenni, esecuzioni efferate nello stile di ciò che accadeva negli stessi anni con la “guerra sucia” in Centroamerica, sotto la mano di eserciti e paramilitari.

Dopo l’oblio collettivo di quei terribili anni, arriva, proprio come nei tribunali di mezza America latina, il colpo di spugna della “giustizia” peloritana. La corte d’assise d’appello di Messina ha emesso la sua sentenza nel maxiprocesso denominato Mare nostrum, ribaltando il dispositivo di primo grado: dimezzati gli ergastoli (da 28 a 14), sfumato il reato associativo di mafia, prescritti tutti i reati “minori” e quelli legati al porto d’armi, una pioggia di assoluzioni per buona parte dei 130 imputati. La corte, in particolare, ha annullato l’ergastolo al riconosciuto boss mafioso Giuseppe Gullotti, condannato in primo grado per il duplice omicidio Iannello-Benvegna. Gullotti, almeno per ora, continuerà a scontare in carcere la condanna a 30 anni (passata in giudicato), quale mandante dell’assassinio del giornalista de La Sicilia, Beppe Alfano.

Resta dunque ben poco di quello che fu il castello accusatorio che portò nel biennio 1992-93 alle operazioni “Mare Nostrum 1 e 2”, quando le forze dell’ordine eseguirono 580 arresti di presunti appartenenti alle organizzazioni criminali di Barcellona, Tortorici, Patti e Sant’Agata di Militello. A far scattare le indagini, furono innanzitutto le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Orlando Galati Giordano e Giuseppe “Pino” Chiofalo”, personaggi ai vertici delle cosche di Tortorici (il primo) e Terme Vigliatore (il secondo), usciti perdenti dalla sanguinosa lotta con i nuovi alleati locali dei “corleonesi”. Soprattutto Pino Chiofalo aveva ricostruito con dovizia di particolari i legami della criminalità con imprenditori, magistrati, amministratori e politici locali, ministri e sottoministri. Uno spaccato di borghesia mafiosa che gli inquirenti hanno deciso però di destoricizzare e decontestualizzare, spezzettando il racconto del boss con perizia chirurgica, ma soprattutto astenendosi dalla ricerca di possibili riscontri sul “terzo livello”. Al vaglio del Tribunale restarono solo i fatti di sangue e le estorsioni, mentre i traffici di stupefacenti furono affidati ad un procedimento-stralcio (Mare nostrum droga), il cui processo di appello si è concluso il 13 novembre scorso con l’assoluzione di tutti e 32 gli imputati (in primo grado erano state 14 le condanne con pene dai 5 a i 14 anni).

«Una sentenza della Corte d’Appello di Messina che lascia stupefatti», è il commento a caldo del senatore del PD Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia che proprio alla pericolosità della mafia della provincia di Messina aveva dedicato un intero capitolo della Relazione di minoranza della Commissione della XIV legislatura. «Sento il bisogno di rompere il riserbo nel commentare le sentenze», aggiunge Lumia. «La mafia barcellonese non può rimanere impunita. Gullotti e gli altri boss sono una minaccia reale, perché fanno parte di Cosa nostra militare e sono collocati nel cuore delle collusioni con la politica e i poteri deviati. Bisogna ritornare ad occuparsi con più incisività del condizionamento mafioso a Messina e in particolare nell’area barcellonese, così come del ruolo di una parte della magistratura, dei poteri collusi sul versante economico-politico e istituzionale, affinché lo Stato torni ad affermare la sua sovranità democratica anche in queste realtà territoriali».

Durissimo il commento di Fabio Repici, avvocato di parte civile nei più importanti processi di mafia svoltisi nel capoluogo dello Stretto (l’omicidio della stiratrice diciassettenne Graziella Campagna, quello del giornalista Alfano, ecc.) e legale di fiducia della famiglia del docente universitario Adolfo Parmaliana, morto suicida il 2 ottobre 2008 dopo aver appreso di un’indagine avviata nei suoi confronti a seguito delle sue documentate denunce su malapolitica, mafia e affari nel Comune di Terme Vigliatore. «La famiglia mafiosa più potente della provincia di Messina e più impunita d’Italia può riprendere serenamente il comando del territorio, nella società criminale e naturalmente pure nella società legale», scrive Repici in una lettera aperta. «La sentenza di Mare Nostrum è solo l’ultimo atto di un grado di giudizio che aveva fatto registrare accadimenti inediti nella storia giudiziaria italiana. Il clima del processo ebbe un mutamento allorché la corte, adeguandosi ad una nuova perizia (dopo ben 9 di segno contrario espletate da esperti di ogni parte d’Italia) che, con argomentazioni a dir poco stravaganti, aveva fornito parere favorevole sulla capacità di rendere esame del collaboratore di giustizia barcellonese Maurizio Bonaceto, aveva deciso di estromettere dal fascicolo i verbali delle dichiarazioni rese a suo tempo da Bonaceto e di disporne l’esame». Rientrato nel 1997 a Barcellona presso i suoi familiari dopo aver interrotto la propria collaborazione processuale, Bonaceto aveva tentato il suicidio lanciandosi dal terrazzo della propria abitazione, rimanendo gravemente menomato nel fisico e nella mente. «Davanti alla corte comparve allora una larva d’uomo che, palesemente incapace di orientarsi, dietro consiglio del suo nuovo legale affermò con qualche difficoltà di non voler rispondere», ricorda il legale. «A quel punto i pubblici ministeri chiesero di acquisire comunque i vecchi verbali di Bonaceto, asserendo che il suo comportamento attuale era da ricondurre alle minacce rivoltegli da esponenti della mafia barcellonese, secondo quanto si ricavava da un suo verbale d’interrogatorio del 24 maggio 1993». Particolare non certo secondario il mai interrotto rapporto di lavoro del fratello del collaboratore di giustizia presso la grande impresa di autodemolizioni intestata alla madre di un altro importante boss barcellonese, Salvatore Ofria.

«Acquisite finalmente le dichiarazioni rese da Bonaceto, alcuni difensori (ed in particolare quelli del boss Giuseppe Gullotti) si adoperarono con strumenti inconsueti per cercare di minarne la credibilità», prosegue Fabio Repici. «Il 9 marzo 2009, uno dei due difensori di Gullotti, l’avvocato Franco Bertolone (che non aveva preso parte al processo fino alla sentenza di primo grado, per essere stato raggiunto dalle accuse del collaboratore Giuseppe Chiofalo, che lo aveva indicato come “consiglieri” della famiglia mafiosa barcellonese grazie ai suoi stretti rapporti con un magistrato, il dottor Cassata, oggi Procuratore generale di Messina) lesse un inconsulto documento anonimo che avanzava dubbi sull’attendibilità di Bonaceto, ma si risolveva anche in un attacco personale soprattutto contro la mia persona e quella di Piero Campagna, fratello della povera Graziella, assassinata nel 1985. Di questo documento veniva letta soltanto una parte, nella quale, in sintesi, si affermava che Bonaceto aveva probabilmente mentito sull’omicidio Alfano, che il boss Gullotti e il killer Antonino Merlino, pur definitivamente condannati, erano in realtà innocenti, che io avevo ben contezza della loro innocenza per avermela confidata Piero Campagna, che io però mai avrei riferito all’autorità giudiziaria ciò che sapevo, per non scagionare i due mafiosi condannati».

A rendere più torbida la vicenda, l’accertamento delle generalità dell’estensore del documento, il sostituto procuratore della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, Olino Canali, che nel processo di primo grado aveva svolto le funzioni di pubblico ministero. E la volontaria omissione da parte dell’avvocato Bertolone della lettura di un successivo passaggio della missiva in cui il Canali scriveva che «Franco Bertolone è il Franco Cassata degli avvocati barcellonesi». Una frase che, sempre secondo Repici, «poteva essere considerata perfino un riscontro alle vecchie accuse del pentito Chiofalo», relative a un presunto stretto legame tra il legale e il magistrato. Proprio il Chiofalo, il 20 febbraio 2004, nel corso della sua deposizione al processo di Catania a carico del magistrato messinese Giovanni Lembo e del boss Michelangelo Alfano poi “suicida”, si era soffermato su un viaggio da lui fatto a Milano in compagnia del legale barcellonese, nel lontano 1972-73, a cui avrebbe partecipato pure Antonio Franco Cassata, al tempo già magistrato. «Avevo dei processi ed io e il mio avvocato all’epoca, Francesco Bertolone, dovendo andare a Milano con l’automobile ci siamo portati dietro un suo amico che poi apprendevo era il giudice Cassata…». Del viaggio a Milano del giudice «su una Mercedes di proprietà del pluriomicida Chiofalo» aveva parlato anche l’ex senatore democristiano Carmelo Santalco in un esposto al Presidente della Repubblica del 6 giugno 2000, successivamente rimesso al Consiglio Superiore della Magistratura che doveva valutare la supposta “incompatibilità ambientale” del dottor Cassata (il procedimento davanti al CSM si è poi concluso in modo favorevole per il magistrato).

Dopo la rinuncia al mandato difensivo da parte dell’avvocato Repici che rappresentava alla corte la sua disponibilità a testimoniare e l’invio di un fax alla Procura generale in cui il dottor Canali riconosceva la paternità del documento letto in aula dall’avvocato Bertolone, veniva disposta la testimonianza del sostituto procuratore di Barcellona, che essendo stato Pm in primo grado, si trovava nella situazione di incompatibilità con l’ufficio di testimone prevista dal codice di procedura penale. «Il dr. Canali testimoniò in due successive udienze, facendo affermazioni plasticamente false», aggiunge Repici. «Per questo egli è oggi indagato dalla Procura di Reggio Calabria per falsa testimonianza e per favoreggiamento del boss Gullotti».

La Procura aveva riaperto nel frattempo l’indagine derivante dall’informativa Tsunami, redatta nel 2005 dalla Compagnia dei carabinieri di Barcellona, che aveva documentato presunti comportamenti illeciti del dottor Antonio Franco Cassata e le frequentazioni fra il Canali ed il cognato del boss Gullotti. «A far riemergere dai cassetti l’informativa era stata la tragica morte di Adolfo Parmaliana», scrive il legale. «La sua ultima lettera, con le accuse al “clan” della “giustizia messinese/barcellonese”, aveva indotto la Procura di Patti a trasmettere il fascicolo sul suicidio di Adolfo alla Procura di Reggio Calabria. La situazione è oggi ancora in fibrillazione. Perché se il dr. Canali è stato costretto a lasciare il distretto giudiziario messinese e le funzioni di pubblico ministero, il dr. Cassata, seppure considerato, anche in atti ufficiali, il più alto referente istituzionale della famiglia mafiosa barcellonese, è ancora incredibilmente il Procuratore generale di Messina. Però, avendo di recente il dr. De Feis riferito alla Procura di Reggio Calabria la verità sulle intimidazioni subite ad opera del Cassata nel 2005, come riportate nell’informativa Tsunami, quest’ultimo ha ragione di temere che la Procura possa determinarsi a procedere nei suoi confronti e che il CSM si senta costretto ad aprire un procedimento disciplinare o paradisciplinare».

È il circolo culturale paramassonico barcellonese “Corda Fratres”, di cui proprio il Cassata è da sempre instancabile animatore, a costituire la migliore vetrina dell’esercizio delle relazioni di potere dell’intera provincia di Messina. Fondato nel 1944, “Corda Fratres” – il cui nome completo è “Fédération Internazionale des Etudiants “Corda Fratres” Consulat de Barcellona (Sicilia)” – vede tra i suoi soci i nomi di grido della classe dirigente politica locale (il senatore del Pdl Domenico Nania, già capogruppo al Senato di An e l’odierno sindaco di Messina ed ex presidente della Provincia, Giuseppe Buzzanca, anch’egli post-fascista), giudici onorari, avvocati tra cui lo stesso Francesco Bertolone, professionisti, imprenditori, ecc.. Nelle liste della “Corda Fratres” compaiono pure i nomi di ben 16 iscritti alle logge del Grande Oriente d’Italia “Fratelli Bandiera” e “La Ragione”. Tra i “soci onorari”, due ex generali dei Carabinieri, Giuseppe Siracusano (tessera P2 n. 496) e Sergio Siracusa, già direttore del SISMI ed ex Comandante generale dell’Arma. Di questa associazione ha fatto pure parte il boss mafioso Giuseppe Gullotti, “allontanato” solo nel febbraio 1993, dopo la visita nella città del Longano della Commissione Parlamentare Antimafia. Presenza altrettanto inquietante quella dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, “compare d’anello” del Gullotti, che inquirenti e collaboratori di giustizia ritengono operare su ben più alti livelli criminali.

«Nulla sembra poter fermare le follie del “rito peloritano”, della giustizia alla messinese», conclude amaramente Fabio Repici. «Nessun segnale di attenzione viene da parte degli organi dello Stato per la provincia di Messina, per questa Corleone del terzo millennio che è Barcellona Pozzo di Gotto, per i miasmi della giustizia messinese. Fino a che nel resto della nazione non ci si decida ad accendere un riflettore sui misfatti di quella provincia, il buio, materiale e morale, continuerà a sommergerla».
Di Antonino Mazzeo

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