Si chiama Ahmid Sulayman. E’ in Italia dal 2013. Ci è arrivato, come altri 307 mila quell’anno, su un barcone. Proviene dal Ghana e, per imbarcarsi in Libia, ha dovuto camminare a piedi per 3 settimane. 21 giorni sotto il sole africano, con il deserto sotto i piedi e dentro il petto. Sognava l’Italia, e in particolare Messina. Un amico gli aveva raccontato che qui “ti accolgono bene”, e solo questo voleva Sol Sulayman: una terra che lo accogliesse, senza violenze, senza “cose brutte e pesanti”.
Dopo tre anni dal suo arrivo a Messina, oggi Sulayman è volontario della Croce Rossa, può contare sulla conoscenza del francese, dell’inglese, dell’italiano e di tre dialetti africani. La sua aspirazione è fare il mediatore, ma nel frattempo sta ultimando la terza media per gli stranieri in attesa di poter frequentare il corso che gli permetterà di raggiungere il proprio obiettivo. Ad oggi, è fra coloro che, tre anni fa, lo hanno accolto ed aiutato dopo un viaggio in cui ha visto morire 4 persone. Ha assistito allo scarico dei corpi in acqua, perché in quelle situazioni “qualcuno muore e non puoi sapere perché, lo devi lasciare al mare”. Ha finto che una ragazza stesse solo dormendo, per salvare il suo corpo senza vita da un destino in fondo al Mediterraneo. Arrivato a Lampedusa, con sua immensa sorpresa e gioia è stato trasferito al Palanebbiolo di Messina e qui, ha incontrato il suo angelo: Maria Fatima Trimarchi, il suo tramite per una vita migliore, il suo appoggio. Ad oggi, la sua mamma. “All’arrivo dei primi immigrati nel 2013 c’era una grande curiosità e un grande interesse verso questi ragazzi – ci racconta Maria Fatima – Ricordo che quando mio marito chiese informazioni gli dissero che c’era un ragazzo che aveva chiesto di giocare a rugby o a football americano. Mio figlio Andrea gioca a rugby, quindi abbiamo chiesto al presidente della squadra di accogliere Sulayman. Così fu. Iniziò a giocare, a seguire gli allenamenti e a frequentare con i compagni e con i miei figli”.
Come con il suo primo pallone in suolo italiano, Sulayman ha così dato un calcio al suo passato, per vivere una vita tanto desiderata. Una vita da uomo libero. Lo sport lo ha aiutato a socializzare, così come la lingua francese gli ha permesso di conoscere meglio quella che oggi chiama ‘mamma’. Maria Fatima, insegnante di francese, ha potuto aiutare Sulayman nel primo periodo della sua permanenza. Chiedeva di parlare francese così, tra un’intervista e una chiacchierata, ha potuto instaurare i primi rapporti con quella che sarebbe diventata la sua famiglia. Una famiglia che ha fatto di tutto per permettergli di restare a Messina. Ad un mese dal suo arrivo al Palanebbiolo infatti, Sulayman sarebbe dovuto andare via. L’intervento di Maria Fatima, di Lucio d’Amico e della Croce Rossa hanno fatto in modo che restasse a Messina, in affidamento alla squadra di rugby. Da maggiorenne infatti, Sulayman non poteva essere affidato ad una famiglia, anche se, piano piano, stava a tutti gli effetti entrando a far parte del piccolo mondo di Maria Fatima. Ha poi cambiato varie abitazioni, tra cui quella della stessa prof.ssa Trimarchi. Ad oggi è ospitato dall’unica parrocchia messinese che ha accolto la richiesta di Papa Francesco: la parrocchia di San Giacomo, di Padre Ettore Sentimentale. Condivide un appartamento all’interno della stessa parrocchia con un altro ragazzo immigrato, e sono in attesa del terzo inquilino. Ricevono vitto e alloggio, ripagando con lavori all’interno della struttura. Sulayman ha sempre lavorato: 8 mesi all’istituto Ignatianum come tuttofare, a Cristo Re e, oggi, studia e fa volontariato.
Quando ci racconta della sua vita da volontario si percepisce un misto di soddisfazione e timidezza, quasi imbarazzo. Ma soprattutto gioia: “nella vita se qualcuno aiuta te, tu devi aiutare gli altri. Se è buono, lo devi fare. Tu sai quello che hai passato. Perché tu non puoi fare quello che altri hanno fatto per te? Per ora posso andare ad aiutare altri come me, e sono molto felice. Ogni volta che esco devo dire grazie a Dio. Sono molto contento per tutto l’aiuto ricevuto nella mia vita”. L’impegno con la Croce Rossa non si limita all’accoglienza durante gli sbarchi, Sulayman si offre infatti come volontario anche in altre situazioni. Commosso ci racconta un episodio che lo ha sconvolto, tanto da dover lasciare una casa dentro cui viveva un bambino molto malato. “Le cose brutte fanno male – ci racconta, e continua – la vita mi ha permesso di lavarmi dai ricordi brutti, ma tornano spesso. Quando sei con gli amici sei pulito, ma piano piano ricordi”. La gioia di essere arrivati cancella tutto. Ma poi il dolore ritorna. Ed è proprio così per Sulayman: “Prima non era facile. Durante il viaggio non era facile pensare al bene. Piano piano riesci a lavare un po’ di dolore. Con gli altri amici e ragazzi sbarcati parliamo e ci incontriamo. Ci sono tante storie. Ognuno ha una storia.”
Ognuno ha una storia da raccontare. Come Sulayman, altri 307 mila solo nel 2013, anno del suo arrivo. Tra loro, tante donne. Quando ci parla di loro, Sulayman si incupisce: “Per le donne è ancora più brutto. Tanta violenza, da parte di tutti. Soprattutto in Libia. Noi le rispettiamo le donne: se sulla barca hai l’acqua la conservi per loro. Se sono stanche gli lasci il posto per riposare. Gli altri no. Violenza. Tanta violenza”. Parole che pietrificano. Ciò che fa riprendere è il sentire la denuncia come un obbligo: “Se qualcuno uccide, o butta qualcuno in acqua o violenta, si deve denunciare. Non sono persone che arrivano in Europa per lavorare, ma sono persone che fanno questo per mestiere. E vanno denunciati”.
Gli chiediamo cosa voglia fare in futuro. La risposta è semplice e complessa al tempo stesso, come tutte le cose talmente semplici da essere sorprendenti: “Sono nelle mani di Dio. Il mio sogno è crescere, vivere una vita. Questo è importante. Voglio lasciare un segno per quelli che verranno dopo. Tu ricordi quello che faccio, se faccio cose belle. Io voglio nella mia vita creare qualcosa di importante. Far ricordare cose belle”.
E quello che dice Sulayman, ‘se fai cose belle vieni ricordato’, vale soprattutto per la sua ‘mamma’. Maria Fatima Trimarchi, anche lei volontaria della Croce Rossa, ci mostra con orgoglio e commozione la lettera di un bambino di 15 anni accolto dopo uno sbarco. Nella lettera, firmata ‘il bambino immigrato’, si leggono ringraziamenti e auguri per una vita migliore per lei e i suoi figli, compreso Sulayman, ovviamente. “Lei è una persona mandata da Dio per asciugare le lacrime di chi è alla sua portata”, scrive questo bimbo di 15 anni, conservando tutta la gioia che un viaggio di mesi non è riuscito a portargli via. E Maria Fatima continua, instancabile. Ci racconta di come sia una catena di montaggio in cui tutti fanno qualcosa, nessuno resta immobile. Senza direttive, senza regole o meccaniche da rispettare. La Croce Rossa per lei è uno stile di vita che, come tale, non necessita di ruoli o comandi, è sufficiente la voglia di fare.
Fare per tutti coloro che, come Sulayman, sono arrivati qui come numeri, per divenire individui.
Una storia commovente, raccontata con la semplicità di una lingua di cui ancora non è padrone. Sulayman non parla perfettamente l’italiano, ma raccontandoci la sua esperienza, usa quelle parole semplici che, proprio per la loro semplicità, colpiscono. Un colpo che si avverte fisicamente. Quando ci racconta del viaggio, non lo descrive come ‘terribile’ o ‘sconvolgente’ o ‘traumatico’. “Il viaggio è stato BRUTTO”. Brutto. Non servono altre specificazioni. Ma quando ci parla della vita e di tutte le cose che gli sono successe, si spalanca un sorriso abbagliante: “La vita è… un SOGNO”.
Gaia Stella Trischitta