Analfabetismo di Ritorno

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Lo chiamano analfabetismo di ritorno ed è un fenomeno che, contrariamente a quanto si può pensare, sta colpendo persone anche con un elevato grado culturale. La società italiana non si deve confrontare con persone che si pongono il problema dell’accento o dell’acca, spesso omessa, ma con individui che non riescono a decodificare il linguaggio basilare. Luca Serianni, noto linguista e professore ordinario di Storia della lingua italiana all’università “Sapienza” di Roma, nei suoi lavori di ricerca ha documentato questo fenomeno e ha dimostrato che, ad esempio, la parola “biasimare” viene interpretata, in una frase come “io biasimo un mio amico”, nel senso opposto a quello che le appartiene: in questo caso, attribuendole il significato di “stimare”.

Questi fenomeni sono stati fotografati anche dell’Ocse, che nelle ultime classifiche ha visto posizionarsi l’Italia e la Spagna agli ultimi posti per abilità comunicative e scientifiche. La scuola, ovviamente, è considerata la causa di questo sfascio, ed è per questo che molti studiosi si sono interrogati sulla strada da intraprendere per correre ai ripari, perché non saper leggere la realtà significa non solo non poter comprendere né farsi un’idea su eventi di vitale importanza, ma causa anche la comparsa in molti casi di fenomeni di violenza che, sebbene non direttamente legati all’analfabetismo, dipendono da quella stessa ignoranza che ha permesso il perpetuarsi di barbarie senza fine nella storia umana.

Il punto della situazione, con il professore di linguistica italiana dell’Università di Messina Fabio Rossi.

Negli anni scorsi, Tullio De Mauro aveva parlato di analfabetismo di ritorno. Come si è evoluta questa caratterizzazione?

Tutti quelli che hanno parlato di analfabetismo di ritorno intendevano la perdita delle capacità culturali e cognitive minime, che consentono la capacità di scrivere un testo accettabile e, direi, anche elementare; e di essere in grado di comprendere e quindi riassumere un testo letto. Insomma, una tendenza al ritorno di una situazione di prealfabetizzazione, cioè la stessa in cui si trova un bambino di cinque o sei anni per la prima volta alle prese con l’alfabeto. In questo caso, però, parliamo di persone adulte e alfabetizzate, in grado, in teoria, di scrivere e comprendere correttamente, ma che non ne sono più capaci perché hanno perso l’abitudine alla lettura e alla scrittura e, quindi, vanno poco oltre la capacità di scrivere testi elementari.

La definizione di massima dell’analfabetismo di ritorno, quindi, è estrema, ma oggi i dati Ocse parlano di un terzo della popolazione studentesca italiana che non è non è in grado, pur non essendo tecnicamente analfabeta, né di produrre testi accettabili, né di comprendere quello che legge. I dati riguardano sia l’aspetto culturale che quello scientifico; quindi, la diffusione dell’analfabetismo di ritorno fa comprendere che bisogna intervenire, perché la società globale è sempre più strutturata sulla comunicazione e sull’economia. Se un terzo della popolazione mondiale non è in grado di comprendere un articolo di giornale , non è in grado di riassumerlo e di saperlo comprendere e, nella peggiore delle ipotesi, capisce il contrario, magari tecnicamente non diremmo di quella persona che è analfabeta, ma di fatto è quasi nelle stesse condizioni di chi lo è: legge e non comprende o scrive e non si rende conto che utilizza un italiano inaccettabile, non tanto perché il testo contiene qualche errore di ortografia, ma perché non rispetta dei requisiti minimi. In questo caso, si parla di una deprivazione sociale enorme. Di questi dati messi nero su bianco dall’Ocse ne abbiamo parecchi. Possiamo vedere l’esito delle prove Invalsi in tutti i gradi di scuola. Anche questi dati, purtroppo, sono piuttosto allarmanti: dimostrano che i nostri studenti escono dai vari cicli scolastici, tra cui gli ultimi, senza aver conseguito un livello accettabile di abilità scrittorie.

Cosa si può fare per arginare questa situazione?

E’ sicuramente una situazione gravissima, non semplicemente la lamentela del purista della lingua italiana che guarda al passato invocando i tempi in cui si scriveva bene. Sta diventando un disavanzo cognitivo e sociale di cui la scuola è la prima responsabile. Bisogna, per cominciare, tentare di accrescere i concorsi di perfezionamento e aggiornamento, con lo scopo di migliorare la classe insegnante dall’asilo fino all’università. Il punto, però, non è tanto migliorare la classe docente nel senso che deve sapere di più, ma nel senso che deve imparare a insegnare meglio, capendo ad esempio che non basta la letteratura nelle ore di italiano. L’ora di italiano non dovrebbe limitarsi alla lettura di testi, all’estetica e alla parafrasi, ma dovrebbe accrescere negli studenti le abilità scrittorie favorendo la costruzione di testi coerenti, facendo esercizio di lessico e riscoprendo anche le molteplici sfumature che la nostra lingua offre con l’uso dei sinonimi. Infine, dovrebbero esserci prove più pratiche e meno di letteratura.

Ci si sta muovendo in tal senso?

In questi ultimi mesi si sta tentando di farlo: appena usciti i risultati dell’Ocse, l’Accademia Nazionale dei Lincei ha cominciato ad organizzare quella che viene chiamata “Accademia Nazionale dei Lincei per una nuova didattica d’italiano”, che mira a organizzare incontri sulla didattica del testo e vede confrontarsi professori universitari e professori delle scuole superiori coadiuvati da tutor.

Lei non addebita questo impoverimento linguistico e cognitivo all’uso della tecnologia?

Che si stia disimparando l’italiano a causa della tecnologia è un luogo comune che proviene dai media. Le colpe che si addebitavano prima alla televisione oggi si danno a internet. Certo, se passa come modello dominante un testo fatto di frasi brevissime e giustapposte, tipico del linguaggio di internet è chiaro che si ha difficoltà ad articolare un pensiero più complesso, però è un fattore che concorre alla non adeguata capacità scrittoria, non l’unico responsabile. E’ stato dimostrato, ad esempio, che chi ricorre a una funzione ludica del linguaggio nelle chat è spesso una persona con un ottimo livello culturale, come scrittori e giornalisti, quindi si tratterebbe di un registro linguistico dettato dal mezzo di veicolazione del messaggio. Non bisogna commettere l’errore di pensare che chi scrive in quel modo è in grado di scrivere solo in quel modo. Credo che i responsabili maggiori siano la scuola e certe dinamiche sociali che hanno fatto sì che a questo mondo venisse sempre meno conferita fiducia e prestigio.

Negli ultimi periodi l’analfabetismo di ritorno è legato anche al risorgere di atteggiamenti xenofobi…

Questo è ovviamente un fenomeno gravissimo e tristissimo. Non posso rispondere in maniera approfondita, non essendo un sociologo o uno storico: posso soltanto dire che non è un tema direttamente collegato all’analfabetismo di ritorno, ma lo è in senso lato. Credo che sia irreprensibile osservare che il razzismo, l’intolleranza e la violenza siano figlie di una profonda ignoranza e dell’anticultura. Quindi, senza dubbio la svalutazione dell’humanitas nel senso più lato e di quei valori di convivenza sociale e quindi culturali che legano insieme una società passano per i valori contrari al razzismo, al’intolleranza e alla violenza. Di conseguenza, più ignorante diventa un popolo – e non c’è dubbio che gli italiani lo stiano diventando – più violento, intollerante e razzista sarà quello stesso popolo. Il discorso, poi, è fortemente legato alla memoria: è come se gli italiani si fossero totalmente dimenticati quando emigranti erano loro. E’ vero, come hanno documentato molti storici, che erano contesti diversissimi quelli dei flussi migratori italiani tra ’800 e ’900, però sempre di problemi sociali si tratta. In molti contesti, gli italiani erano discriminati: in Svizzera, ad esempio, si trovavano cartelli che recitavano “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Questi fenomeni di aberrazioni umane sono legati fortemente alla memoria e, in senso lato, all’analfabetismo di ritorno e alla perdita dei valori umani.

 

Claudia Benassai

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