«…l’espressione “violenza contro le donne” significa ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi o possa verosimilmente provocare un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, comprese le minacce di violenza, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata»
Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993 -art.1)
«Milano, donna uccisa in strada. L’ex marito le spara dal balcone … “Litigavano sull’affidamento dei figli”». È il titolo de “la Repubblica” di oggi, 3 settembre 2010, sull’ennesimo caso “estremo” di violenza di genere, accaduto proprio mentre stavo finendo di scrivere queste riflessioni, rendendole, se possibile, ancora più tragicamente attuali.
Sono una storica delle istituzioni giuridiche e politiche, non una sociologa, e pertanto il mio approccio al tema della violenza sulle donne risente di questa formazione. Lo si desume già dal titolo.
A proposito del titolo, vorrei innanzitutto richiamare l’attenzione sull’uso dell’espressione “violenza di genere”, una definizione in progress con cui comunemente s’intende «la violenza perpetrata contro donne e minori che trova la sua origine e causa nel genere»[1].
Si vuole così mettere in evidenza la dimensione “sessuata” del fenomeno, posto in essere all’interno di un rapporto asimmetrico tra uomo e donna dove la violenza appare «manifestazione delle relazioni di potere storicamente ineguali» tra i due sessi, che hanno condotto gli uomini al dominio sulle donne, rendendo queste per secoli sottomesse e discriminate[2].
La violenza nei confronti delle donne, in qualunque forma sia espressa – dallo stupro alla violenza domestica, dalla violenza psicologica a quella fisica o economica – è esercizio del potere fondato sullo squilibrio nella relazione tra i sessi, che ha plasmato, nel tempo, le identità femminili e maschili, costringendo entrambe nella corazza degli stereotipi: l’uomo forte e la donna sottomessa, l’uomo titolare di potestà visibili, che occupa gli spazi pubblici ed esercita potere e la donna il cui ruolo storico è relegato in una dimensione “domestica” e tutt’al più, sfidando le apparenze, esercita poteri in forma subdola e occulta.
Preferire questa locuzione a quella di “violenza contro le donne” è significativo: non rappresenta una semplice scelta di tipo terminologico o lessicale, ma costituisce a mio avviso un cambio di passo, anche sotto il profilo simbolico, nella lunga marcia per contrastare questo fenomeno. Parlare di violenza contro le donne significa “fotografare” il fatto, mentre parlare di violenza di genere significa porre le basi per capirlo, per comprenderne le cause, per analizzarlo da prospettive diverse, ponendosi non solo dalla parte delle donne ma anche di tutti gli altri attori che “animano la scena del crimine” – perché di crimine si tratta – e pertanto per costruire solide fondamenta sulle quali edificare le articolate misure di contrasto. Misure che non devono mirare solo alla punizione dell’autore della violenza. La repressione è necessaria, ma da sola non basta. Le misure punitive – che possono esercitare un effetto deterrente solo se dotate di efficacia e di effettività – in ogni caso intervengono dopo che la violenza ha avuto luogo e devono essere affiancate da altre misure che abbiano la capacità di prevenire la violenza o comunque di snidarla prima che si manifesti in tutta la sua brutalità.
Sono indubbiamente necessari gli interventi legislativi, da quelli di carattere strettamente penale, intesi soprattutto a rafforzare l’effettività delle sanzioni, a specifiche “leggi anti-violenza”, di cui quasi tutte le regioni si sono dotate (manca ancora all’appello la Regione Siciliana). Accanto ad essi, però, le istituzioni (il legislatore, gli enti locali, le forze di polizia etc.) devono adottare interventi sociali (apertura di sportelli di ascolto e di denuncia, di presidi anti-violenza nei vari ambiti territoriali, di case di accoglienza o di residenze assistite per donne vittime di violenza o di altre forme di sfruttamento, attivazione di linee telefoniche dedicate, assistenza attraverso personale specializzato, sostegno ai Centri anti-violenza esistenti etc.) e soprattutto interventi che genericamente definirei culturali: per divulgare la cultura di genere, per riconoscere la violenza e acquisirne consapevolezza, per “professionalizzare” le forze di polizia e gli operatori, perché apprendano una maggior conoscenza, sensibilità, capacità di lettura e riconoscimento del problema, per combattere gli stereotipi, per sensibilizzare alla parità e al contrasto di qualsiasi forma di discriminazione (penso alla campagna organica ed integrata di comunicazione e sensibilizzazione contro la violenza sulle donne “Mai più sole” finanziata dalla Regione Toscana).
Da storica delle istituzioni politiche e giuridiche, riflettendo sulla violenza di genere, non posso fare a meno di pensare al “valore della tradizione”.
Nella storia del diritto, e in particolare nella storia del costituzionalismo, la tradizione ha a lungo ricoperto un ruolo fondante e legittimante. Fino all’età delle rivoluzioni di fine Settecento, era pressoché incontrastata l’idea di “costituzione storica”, basata sulla convinzione che le leggi fondamentali poste alla base del patto sociale dovessero descrivere gli assetti esistenti di una comunità politico-sociale organizzata, che fossero un prodotto della storia, qualcosa che proveniva dal passato, che si legittimava per la sua antichità ed era emozionalmente recepita e vissuta come eredità degli antenati, come tradizione trasmessa attraverso consuetudini “immemoriali”, la cui memoria, cioè, si perdeva nel tempo, consuetudini fatte risalire indietro fino a quando “la memoria dell’uomo non s’urtava al contrario”.
La tradizione era pertanto vissuta come valore positivo. Ebbene, riguardo alla violenza di genere, certe tradizioni costituiscono invece un evidente “disvalore”.
Del resto, il nostro diritto di famiglia è stato a lungo permeato di violenza, alimentandosi di disvalori considerati per troppo tempo “valori insopprimibili”. Basti pensare che la politica familiare del ventennio fascista, incentrata sull’incontrastata preminenza dell’uomo, necessaria per garantire l’unità della famiglia, contemplava anche lo jus corrigendi, ovvero il “diritto” da parte del capo-famiglia di picchiare a fini correttivi e di disciplina moglie e figli (ma anche chiunque abitasse presso il proprio domicilio). Va peraltro ricordato che la Corte di Cassazione, nel 1954[3], quindi dopo sei anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che all’art. 29 proclama l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, continuava a riconoscere il “diritto di correzione” del marito, esprimendo una posizione contraria solo nel 1956[4]!
Di fronte al peso di tradizioni a lungo legittimate da un ordinamento giuridico che era specchio di un sistema rigidamente patriarcale, a poco varranno le leggi e le sanzioni se non si interviene con vigore per diffondere e far maturare la cultura della parità e del rispetto delle diversità.
La violenza va sottratta alla cronaca e va affrontata con metodo, riconoscendone ed estirpandone le radici maschiliste e cercando al contempo di cogliere tutte le sottili differenze e sfumature che la connotano. Ogni violenza ha una sua storia ed entra prepotentemente, devastandola, nella storia di altri esseri umani, per lo più donne e bambini.
Anche le istituzioni culturali – prima fra tutte l’Università – possono svolgere un ruolo significativo. Il loro impegno dovrebbe essere quello di sollecitare una riflessione corale, di uomini e donne, di studenti e docenti dei diversi settori disciplinari, d’intesa con le associazioni e gli organismi impegnati nella lotta alla violenza di genere, per studiare, con sguardo ampio e limpido, le diverse e originali modalità di intervento di tipo culturale, creando occasioni di confronto da una duplice prospettiva: femminile e maschile, affinché la violenza sulle donne non sia solo una “questione di donne”, ma veda in prima persona gli uomini protagonisti di un radicale processo di responsabilizzazione.
A questo proposito vorrei raccontare una esperienza didattica realizzata lo scorso anno a Scienze Politiche, a conclusione del Corso di “Storia delle istituzioni politiche e sociali” della Laurea magistrale in Servizio sociale e politiche sociali: un seminario sulla violenza di genere condotto dalle allieve del Corso e destinato ai loro colleghi come “attività formativa a scelta dello studente”.
Le allieve (erano casualmente tutte donne), laureate alla triennale di Servizio sociale e quasi tutte già inserite nel mondo del lavoro come assistenti sociali, lo hanno curato e realizzato con passione, competenza e partecipazione. L’argomento è stato esaminato da tutti i punti di vista. La lettura della locandina può dare l’idea della vastità dei temi trattati e quindi della complessità della questione.
Si è parlato anche di violenza a causa del diverso orientamento sessuale: un profilo che esigerebbe certamente un maggiore impegno. Mi domando: quanti di noi sono certi di non aver mai, pur senza rendersene conto, fatto commenti ironici o “semplici risolini” su un omosessuale per la sua “diversa” affettività? Così facendo, anche se involontariamente, abbiamo contribuito alla diffusa colpevolizzazione sociale dell’omosessualità che rischia di legittimare atti e comportamenti discriminatori e violenti verso le persone lgbt (lesbiche, gay, bisex e trans). Violenze di genere anche queste, cresciute in termini esponenziali, così come quelle contro le donne. Che fare per arginare il fenomeno? A mio avviso, solo sollecitando politiche positive di inclusione e di crescita sociale e culturale riusciremo a colpire alla radice l’odio verso la libertà e l’autodeterminazione delle donne e delle persone lgbt, a non farle/li sentire più sole/i e a sostenerle nel prendere coraggio per uscire dalla spirale delle “cose non dette”.
Uno dei contributi più interessanti del seminario è stato quello di Maria Letizia (Mariella) Polistena, assistente sociale presso il carcere di Vibo Valentia, a contatto, per ragioni legate al suo ruolo, con detenuti puniti per aver commesso violenze sessuali, per lo più inflitte all’interno delle mura domestiche: i sex offenders nella terminologia tecnica degli operatori penitenziari, “gli infami” nella gergo diffuso all’interno della subcultura carceraria.
Questo tipo di violenza, comunque la si definisca – stupro, violenza carnale, violenza sessuale o altro – esercita sulla vittima effetti molteplici e devastanti. A rendere odioso, oggi come ieri, questo reato è la violazione della libertà sessuale, l’essere costretto o costretta a subire o a compiere un atto sessuale non voluto, senza consenso e nella piena e disperata consapevolezza di non poter disporre liberamente del proprio corpo. A renderlo spesso impunito, oggi meno di ieri ma pur sempre in modo rilevante, è la reticenza della vittima, soprattutto se autore del reato è un parente o un conoscente.
Una recente indagine condotta in Italia dall’Istat ha messo in luce una percentuale ancora altissima di “sommerso” nelle violenze sessuali subite da donne[5], ma il fenomeno è comune all’intero pianeta[6]. Le donne – per paura delle ritorsioni, per vergogna, per immotivati sensi di colpa, perché esponendosi temono di sottoporsi a un’ulteriore violenza, perché è ancora debole la rete di solidarietà e di sostegno che potrebbe aiutarle a “uscire dal silenzio” – preferiscono non denunciare e non dare il via a un iter processuale che potrebbe risarcirle, anche solo simbolicamente, del danno sofferto, ma che è vissuto spesso in solitudine e nel corso del quale il sistematico tentativo della difesa dell’imputato è di minarne la credibilità se non addirittura di trasformarle da vittime in imputate o in consenzienti.
Altrettanto simili, alle diverse latitudini, sono le caratteristiche di chi agisce la violenza: sono per lo più uomini, raramente estranei e appartenenti a ogni tipologia sociale e culturale. Si tratta di dati noti, sui quali si è diffusamente soffermata l’attenzione di psicologi, sociologi e operatori sociali e verso cui le istituzioni hanno avviato, seppure “a macchia di leopardo”, numerose iniziative di sensibilizzazione e misure di contrasto. Evidentemente non ancora sufficienti.
Mariella Polistena ha fornito i dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sul numero di detenuti per reati sessuali (2.352 nel 2008), ha ipotizzato un profilo dell’autore di questo particolare tipo di violenza, ha illustrato le tecniche del trattamento cui, volontariamente, costoro si sottopongono mentre stanno espiando la pena e ha concluso leggendo la lettera scritta dal padre di uno di loro. Una lettera che Vi ripropongo:
«Se la polizia mi avesse detto che mio figlio era morto, i miei pensieri su di lui sarebbero stati diversi. Se mi avessero detto che uno strano uomo lo aveva attirato in un appartamento e, pochi minuti dopo, lo aveva drogato, strangolato, e poi violentato e mutilato il suo cadavere – in breve, se avessero riferito a me quelle cose che avevano dovuto comunicare ad altri padri e madri – avrei fatto anch’io quello che hanno fatto loro. Avrei pianto mio figlio e avrei preteso che l’uomo che lo aveva ucciso venisse duramente punito: se non giustiziato, almeno separato per sempre dal resto dell’umanità. Ma a me non fu detto quello che fu detto agli altri padri. No, a me fu detto che mio figlio era quello che aveva assassinato i loro figli […]. Come potevo sapere che il ragazzo che sedeva di fronte a me, con gli occhi completamente spenti, se ne stesse in un mondo di incubi e di inimmaginabili fantasie che, con il passare degli anni, l’avrebbero sopraffatto? Non l’ho mai sentito parlare del futuro. Ora capisco che sin da allora immaginava che non ne avrebbe avuto uno».
Ho voluto chiudere il mio intervento con questa lettera per sottolineare ancora una volta che il fenomeno è complesso. Le vittime non sono solo quelle che subiscono la violenza: il costo sociale e umano della violenza è altissimo e l’impegno per combatterla dev’essere commisurato alla gravità e complessità del fenomeno.
[1] Corte di Cassazione, sentenza del 20 dicembre 1954, in «Giustizia penale», 55, II, p. 954.
[1] Corte di Cassazione, sentenza del 22 febbraio 1956, in «Rivista italiana di diritto penale», 57, p. 421, con nota di Pisapia.
[1] Già nel 1997/98, nell’ambito di una prima indagine sulla sicurezza dei cittadini, l’Istat ha approfondito aspetti relativi a molestie e violenze sessuali. Cfr. L.L.Sabbadini, Percezione sociale della violenza sessuale e fenomenologie sommerse. L’indagine Istat sulla sicurezza dei cittadini, in Libertà femminile e violenza sulle donne. Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, a cura di C. Adami, A. Basaglia, F. Bimbi, V. Tola, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 69-91. Nel 2007 sono stati resi noti i risultati di una successiva indagine condotta sempre dall’Istat a seguito di una convenzione stipulata con il Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità. I risultati sono visibili sul sito http://istat.it/salastampa /comunicati/non_calendario/20070221_00/. I risultati dell’indagine sono pubblicati nel volume Istat, Violenza contro le donne. Indagine multiscopo sulle famiglie “Sicurezza delle donne” anno 2006, a cura di M. G. Muratore et al., Roma, Istituto Nazionale di Statistica, 2008.
[1] Sui limiti delle indagini statistiche e sulle molteplici cause delle mancate denunce alle autorità si veda, per tutti, J. Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi, trad. it. di M.G. Cavallo, L. Fantoni e P. Falcone, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 16 e ss.
[1] C. Currò, La violenza di genere, in Donne, politica e istituzioni. Percorsi, esperienze e idee, a cura di M. A. Cocchiara, Roma, Aracne, 2009, pp. 189-193.
[3] Corte di Cassazione, sentenza del 20 dicembre 1954, in «Giustizia penale», 55, II, p. 954.
[4] Corte di Cassazione, sentenza del 22 febbraio 1956, in «Rivista italiana di diritto penale», 57, p. 421, con nota di Pisapia.
[5] Già nel 1997/98, nell’ambito di una prima indagine sulla sicurezza dei cittadini, l’Istat ha approfondito aspetti relativi a molestie e violenze sessuali. Cfr. L.L.Sabbadini, Percezione sociale della violenza sessuale e fenomenologie sommerse. L’indagine Istat sulla sicurezza dei cittadini, in Libertà femminile e violenza sulle donne. Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, a cura di C. Adami, A. Basaglia, F. Bimbi, V. Tola, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 69-91. Nel 2007 sono stati resi noti i risultati di una successiva indagine condotta sempre dall’Istat a seguito di una convenzione stipulata con il Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità. I risultati sono visibili sul sito http://istat.it/salastampa /comunicati/non_calendario/20070221_00/. I risultati dell’indagine sono pubblicati nel volume Istat, Violenza contro le donne. Indagine multiscopo sulle famiglie “Sicurezza delle donne” anno 2006, a cura di M. G. Muratore et al., Roma, Istituto Nazionale di Statistica, 2008.
[6] Sui limiti delle indagini statistiche e sulle molteplici cause delle mancate denunce alle autorità si veda, per tutti, J. Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi, trad. it. di M.G. Cavallo, L. Fantoni e P. Falcone, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 16 e ss.