L’inizio è pieno di gioia: un uomo e una donna che corrono sorridenti verso un fiume, scherzano, si abbracciano, si tengono per mano. “Bello!”, esclama lei prima di mettersi a canticchiare.
Ad un tratto l’uomo si guarda attorno, con circospezione. È un attimo: afferra la borsa della donna, la spinge in acqua e fugge via.
Travolta dalla corrente, lei annaspa, si agita, urla. Un bambino travestito da indiano la vede e chiama aiuto; tre ragazzetti intervengono portandola a riva, ma lei sembra morta, lo credono anche i borgatari che cercano di rianimarla tenendola a testa in giù.
Alla fine però la donna riprende conoscenza e, seppur in stato confusionale, scappa via, lasciando i suoi soccorritori a chiedersi che essa sia. La risposta la dà un bambino: è Cabiria, una che fa la vita.
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Nella sequenza di apertura di Le notti di Cabiria (1957, premio Oscar come miglior film straniero), con la “morte” e la “resurrezione” di una prostituta (Giuletta Masina, miglior interpretazione femminile al festival di Cannes), Fellini riassume il nucleo tematico dell’intero film, ovvero l’amore puro e disinteressato contrapposto all’inganno e alla perfidia umana.
Una lotta insomma, la più antica di tutte, quella tra bene e il male, incarnata dal contrasto tra la protagonista e il mondo che la circonda.
Certo, Cabiria – personaggio già presente in Lo sceicco bianco (1952) dello stesso Fellini – resta sempre una figura tutta terrena, una meretrice, eppure rispetto al contesto sociale in cui vive e agisce – quella periferia popolata da mignotte e magnaccia che sarà al centro del primo Pasolini cineasta (che qui, non a caso, collabora alla stesura dei dialoghi) – riesce a distinguersi e a brillare, con la sua spensieratezza malinconica, con la sua nostalgia per qualcosa d’indefinito e inestimabile che sembra irrimediabilmente perduto. Sarà pure abituata ad affrontare le insidie della vita, ma difatti il suo personaggio è sin da subito connotato da una certa ingenuità infantile che si traduce in inaspettati slanci emotivi e fiduciose aperture verso gli altri.
Innocenza e peccato, Cabiria è un ossimoro vivente.
Viene da pensare, con le dovute differenze, all’Irene Gerard (Ingrid bergman) di Europa ’51 (1952) di Roberto Rosselini, ma il film è già compiutamente felliniano e racchiude in sé, seppur in nuce, i film che verranno.
La descrizione puntuale dell’ambiente sociale, e dei modi e dei tipi del sottoproletariato romano, serve solo da sfondo per un itinerario, doloroso ma necessario, verso la redenzione e la grazia.
Inoltre la vicenda – che non presenta una struttura narrativa lineare e, quasi seguendo quella poetica del pedinamento tanto cara a Zavattini, procede per episodi, stralci di vita – sembra dominata dal caso. Non sembra esserci causalità a guidare gli eventi, solo l’alternarsi del giorno e della notte che fa da cornice a queste piccole parabole evangeliche fatte di incontri e scontri, dicotomie e rimandi.
Così, precipitosamente, si passa dagli antichi archi romani, sotto i quali Cabiria professa il suo mestiere, alla sfavillante Via Veneto, fulcro del film successivo di Fellini, La dolce vita (1960).
Qui è l’orgoglio di Cabiria a manifestarsi, o meglio il suo sentirsi destinata a qualcosa di migliore, il suo desiderio mal celato di cambiare vita, anche solo all’interno della logica della prostituzione. Allora la buffa Cabiria s’addentra nella mondanità, si confronta con due squillo d’alto bordo e, alla fine, il caso sembra premiarla con l’invito di un divo del cinema, Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari), a passare la serata a casa sua.
Ma Cabiria non vede, le sue aspirazioni sono così immense da ottunderle i sensi e la ragione: ella non capisce il suo ruolo, il suo essere un mero strumento di ripicca, di vendetta, e passerà la notte in un bagno a spiare il grande attore fare la pace con la propria fidanzata.
Ancora inganni quindi, ma questa volta è Cabiria stessa a crearsi le proprie illusioni, a non voler vedere, a non accorgersi che dietro le auto americane, dietro gli arredi barocchi e le sontuose ville si cela quello stesso squallore da cui cerca di sfuggire. Solo andandosene si renderà conto della ingannevole durezza della vita, sbattendo la testa contro una porta a vetri, contro i suoi stessi sogni.
A questo punto la notte volge al termine, s’affacciano i primi raggi del sole sulla campagna romana. Cabiria vaga smarrita cercando di tornare a casa, quando i fari di un’auto l’abbagliano: appare un uomo, una figura losca con un sacco sulle spalle. Cabiria ne è intimorita, ma decide di seguirlo, sia perché vorrebbe chiedergli un passaggio, sia perché in qualche modo ne è, nonostante tutto, incuriosita e attratta.
È l’incontro con la carità, con il dare senza pretendere nulla in cambio, un incontro che riempie Cabiria di stupore: perché quell’uomo distribuisce beni di prima necessità ai barboni che vivono nelle grotte?
Come San Paolo, la donna ne resta folgorata e il suo scetticismo, precedentemente manifestato, muta di segno, diviene fervore religioso. Forse è la scintilla, il segnale divino che indica la retta via.
E difatti la vediamo, nella scena seguente, andare in pellegrinaggio dalla Madonna del Divin Amore.
La scoperta di modi alternativi di concepire i rapporti umani, la visione della disperazione che si esprime attraverso la preghiera, spingeranno Cabiria, il cui vero nome è Maria, a chiedere la grazia alla Vergine.
Presa da un fervore mistico quasi estatico, in un misto di paura e gioia, piange di fronte all’altare consacrato alla Madonna, piange e chiede di poter cambiare vita.
Ma nessuno guarisce, non avviene nessun miracolo, nessuna grazia, nessuna redenzione: “Non semo cambiate! Non semo cambiate!”.
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Arriva un’altra notte. Cabiria passeggia e casualmente s’imbatte in uno spettacolo di varietà durante il quale un mago la ipnotizzerà, facendole vivere un incontro amoroso con un uomo immaginario di nome Oscar.
Assistiamo alla regressione della protagonista, torniamo con lei ai suoi diciotto anni, quando Cabiria era ancora Maria e aveva i capelli neri, lunghissimi, e andava a messa con la madre. La sua genuinità è messa in mostra, il suo candore preso di mira da un pubblico rozzamente divertito.
Ma è tutta una messa in scena e a manovrarne i fili è l’ipnotista con le corna da diavolo.
L’illusione però non ha fine e si proietta nella realtà; non ci sono più il palco e il sipario a indicarci che è tutto uno spettacolo, l’inganno ora pervade la vita, e nella vita reale è molto più difficile discernere il vero dal falso, il bene dal male.
E infatti Cabiria ci ricasca. All’uscita dal cinema in cui si è tenuto lo spettacolo incontra un sedicente ragioniere che dice di chiamarsi Oscar, proprio come il fantasmatico innamorato creato dal diabolico mago. Cabiria è ammaliata, totalmente irretita dall’uomo, dai suoi modi galanti, dalla sua gentilezza, segni evidenti di una purezza e una bontà d’animo pari solo a quelli che lei serba nel cuore.
Cabiria ne parla alle compagne con entusiasmo: Oscar non chiede nulla, non pretende nulla.
Come un novello Fulvio Axilla – l’eroe del Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone – egli è venuto a salvarla da Moloch.
E così accadrà, almeno sembra: Oscar le chiede di sposarlo e Maria, lasciati per sempre i panni di Cabiria, vende tutto: la casa, i mobili, le suppellettili, anni di sacrifici trasformati in dote.
Eccoci dunque alla sequenza finale con i due innamorati che pranzano, festeggiando in anticipo il lieto evento. È il tramonto ed il bosco è bellissimo al tramonto. Sembra riproporsi la scena creata ad hoc dall’ipnotista: Maria raccoglie fiori e li regala all’amato, corre lieta tra gli alberi, scherza con Oscar, lo bacia, lo abbraccia. Ma l’idillio non è neanche cominciato che il futuro sposo comincia a mostrare il suo vero volto. Anche lui, come l’uomo della scena iniziale, comincia a guardarsi attorno con circospezione. Muto, incapace di rispondere alle effusioni della donna, comincia a sudare, a tremare. Solo adesso Maria capisce: si inginocchia sul bordo del dirupo in cui la coppia è giunta e gli consegna i soldi. Oscar li prende, ma è titubante, come se non volesse compiere quel gesto atroce, come se non volesse infierire su quella creatura già provata dalla vita; eppure deve farlo, come se fosse un dovere, come se a decidere non fosse lui ma una qualche forza sovrumana.
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Scende la notte, l’ultima notte. Maria, col volto intriso di lacrime, s’incammina tra gli alberi, senza una meta, senza una casa dove andare. D’un tratto si odono delle voci in lontananza: un gruppo di ragazzi che con chitarre e fisarmonica scorteranno Maria lungo la via.
Ed ecco allora che il pianto di questa Pierrot della strada si tramuta in sorriso.
Forse Maria non ha mai avuto bisogno della redenzione e della grazia, perché essa stessa, Alter Christus al femminile, personifica entrambe; saranno i suoi occhi a svelarcelo guardando in camera, guardando noi spettatori, per trasmetterci il suo bisogno infinito di un amore innocente, un bisogno così forte e disperato da riuscire a sconfiggere il senso d’impotenza e di rassegnazione che opprime chi si scontra con le forze del male.