Il presidente della Corte d’Appello di Messina Niccolò Fazio non usa mezzi termini, e definisce una «grave sperequazione, attestata persino da una risoluzione del Consiglio superiore della magistratura del 13 luglio 2012» la carenza di organico che da anni affligge i tribunali del distretto. Quella che lancia nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 è un’accusa ben precisa contro i governi che si sono susseguiti fino ad oggi: «Nell’agenda legislativa dovrebbero figurare ben altre e corpose riforme: l’efficiente organizzazione del sistema giudiziario, un consistente aumento di giudici e del personale amministrativo e soprattutto la costituzione dell’ufficio del giudice, cioè una struttura di supporto dotata di adeguate tecnologie informatiche, di giudici onorari che collaborino con il magistrato alla gestione delle fasi processuali e di assistenti selezionati in grado di svolgere ricerche e di predisporre bozze di motivazioni». A Messina, come nel resto d’Italia, i discorsi si assomigliano tutti: manca il personale, i tempi dei processi sono determinati da lungaggini burocratiche e mancano i fondi persino per acquistare i materiali di cancelleria come carta per fotocopiare e timbri.
Ci sono due cose, però, che rendono l’inaugurazione dell’anno giudiziario di Messina diverso dagli altri. Innanzitutto la defezione del Procuratore generale Antonio Franco Cassata. Il suo posto al tavolo dei relatori con l’ermellino resta vuoto durante la manifestazione, lasciando delusi i giornalisti accorsi per strappargli un commento sulla condanna in primo grado arrivata solo due giorni fa: giovedì sera, quando Cassata è stato sanzionato con 800 euro di multa per aver diffamato il professore Adolfo Parmaliana con un dossier che infangava la memoria del docente di chimica all’Università di Messina, colpevole di aver lasciato una lettera-testamento d’accusa nei confronti della magistratura messinese e di Barcellona Pozzo di Gotto, prima di suicidarsi il 2 ottobre 2008.
La seconda è l’arringa del giudice Melchiorre Briguglio. Un discorso capace di cancellare nell’arco di pochi minuti decenni di progresso in materia di contrasto alla corruzione e ai reati dei cosiddetti “colletti bianchi”, quelli che solo i potenti possono commettere. «Noi magistrati dovremmo fare un bagno di umiltà, invece di auto-elogiarci, perché la fiducia della gente nel prestigio dell’istituzione non trova più riscontro nelle aule giudiziarie ogni giorno» ha affermato. E a cosa è dovuto il crollo di fiducia nella magistratura secondo Melchiorre Briguglio? Non agli scandali che l’hanno riguardata – uno su tutti quello che nel 2008 ha fatto emergere una ragnatela di rapporti tra giudici e imprenditori collusi con la mafia. Bensì al «plateale esibizionismo di pochi magistrati che ha esposto l’intero ordine alla carica delegittimante, compresi coloro che umilmente lavorano nel silenzio». Se i cittadini non credono nella giustizia dello Stato è per colpa di Antonio Ingroia che si candida, è il pensiero di Briguglio.
Un’idea che riporta indietro le lancette della storia agli anni Cinquanta, quando i bravi magistrati erano quelli che lavoravano in silenzio, come dice Briguglio, occupandosi di processare i poveracci invece dei potenti. Quando i nomi di pubblici ministeri e giudici non si conoscevano, e chi combatteva la mafia e le sue collusioni con la politica veniva ucciso nel silenzio generale, senza essere conosciuto dai cittadini. Poi arrivarono gli anni Ottanta e i Novanta, Falcone, Borsellino e il pool di Palermo. E si scoprì che l’isolamento dei magistrati che si schieravano per la giustizia senza fare sconti a professionisti e politici era controproducente.
Ma a Messina il tempo si è fermato.