Leggere su “L’Espresso” che ci sono 700 persone che in Italia pare non possano fare a meno di una protezione armata 24 ore su 24 fa riflettere. Perché ti metti a pensare che questo Stato fa fatica a garantire la protezione a tutti, il cosiddetto “ordine pubblico”, anche se a governare sono quelli che dicono che la mafia come la combattono loro non la combatte neanche l’esercito della Marvel; anche se in effetti di gruppi organizzati pericolosi, anarchici o pseudo fascisti che siano non se ne trovano di così minacciosi (fatta eccezione per il rigurgito a cinque punte che uccise Biagi, il giuslavorista definito però dall’allora ministro Scajola – oggi sconoscitore dei suoi averi – “un rompicoglioni”); anche se gira voce che ci siano caposcorta che organizzano attentati nei sottoscala per divertimento. Insomma: gente come Diliberto e Baccini perché devono avere le armi alle spalle? Perché il Quirinale è ancora blindato da un migliaio di persone, fra carabinieri e polizia? E perché a Messina i poliziotti non riescono neanche a vedere i figli?
In pratica funziona così: dovesse verificarsi il caso che quattro detenuti vanno portati fino in tribunale, dal carcere, servirebbero 10 guardie di scorta, ma stante la situazione attuale la cosa è impossibile: con sei sole guardie non si può. “Siamo circa il quaranta per cento in meno, il che comporta doppi turni, sacrifici che cadono sulle nostre spalle. Oltre che problemi oggettivi di sicurezza. Insomma, il fisico poi non permette più…”. Già , il fisico non permette. Fra la polizia penitenziaria di Gazzi, nel messinese, c’è chi non vede i figli per giorni, costretto a incatenarsi al lavoro e a provare a spiegare che “papà non può”, mandando il collega che smonta a prendere la bambina, magari, perché il tempo non permette di fare il genitore come si deve.
In Italia, si sa, la situazione delle carceri è quella che è, e mentre la politica gioca a lanciarsi le ipotesi fra indulti e nuovi edifici, dentro le mura attuali si scoppia. Il paradosso è che per i detenuti in qualche modo si prova a far qualcosa, al punto che la protesta di questi giorni della polizia penitenziaria che opera alle porte dello Stretto non viene osteggiata da chi sta dietro le sbarre, sebbene la forma di protesta che prevede il pieno rispetto del regolamento nell’utilizzo del personale (il cosiddetto “sciopero bianco”) li veda in qualche modo svantaggiati (nel caso dei colloqui coi familiari, ad esempio, il ridotto numero di personale in accordo con l’osservanza rigorosa delle norme vede ridimensionato il numero di incontri dai 26/28 previsti ad un massimo di 16).
“Specialmente noi che siamo nelle scorte non abbiamo un orario, ma solo l’inizio turno, perciò se poi capita un arresto domiciliare o un’udienza urgente e siamo sempre i soliti…”. L’agente che accetta di parlare spiega che, a conti fatti, è impossibile continuare a lavorare così, e nessuno pensi che è giusto solo perché è così dappertutto. “Per di più qua, essendo un istituto più piccolo, le esigenze si notano di più, al punto che ogni giorno la nostra direzione chiede aiuto in tutta la Sicilia agli altri istituti per mandare personale”.
Le ristrettezze alle quali sono soggette le guardie, a Gazzi, non sono da niente: “Noi – spiega l’agente – teoricamente dovremmo fare sei ore, ma per esigenze le sezioni fanno turni di otto ore, che poi con le scorte e quant’altro si moltiplicano…”.
La protesta (iniziata il 7 dicembre con l’astensione dal consumare pasti alla mensa di servizio), però, pare non dare grandi frutti: “Abbiamo chiesto incontri anche al ministero, ma fino a oggi ci hanno ignorati. Siamo fra l’incudine e il martello, poi, perché non possiamo rifiutarci di portare un soggetto agli arresti domiciliari: dovesse succedere qualcosa pagheremmo le conseguenze. Insomma: ci sentiamo abbandonati. Fossimo una ditta privata avremmo con chi confrontarci realmente”.
“Una bomba col timer che gira”. Così descrive il carcere di Gazzi l’agente, ed è un’immagine che rende bene l’idea. Il problema è che il tempo per tagliare il filo giusto sta per scadere. Sempre che lo si indovini, quel filo.