La par condicio regna nei teleschermi, le amministrative hanno riempito le case di un odore nuovo, di cambiamento dicono. Pisapia, De Magistris e Zedda sono i volti – dicono – nuovi di questa vecchia politica, e le attenzioni sono concentrate su di loro, possibili portatori di un vento inaspettato, capace di spazzare via il tanfo della corruzione, dei soprusi, dei privilegi, nel finire di una primavera ombrosa come questa. E tutta Europa si guarda nella coscienza, e molti decidono di dire basta. Ma ai nostri telegiornali non interessa di questo, del dramma spagnolo, della rabbia greca, dei pugni stretti delle popolazioni croata, portoghese, irlandese, italiana. Ci sono i ballottaggi, ed il mondo si ferma nei teleschermi. Ma non oltre le mura di redazione, oltre i cancelli delle televisioni, oltre Palazzo Marino e Palazzo San Giacomo. Più ci si allontana dall’Italia e più si affievoliscono le voci di cambiamento che il Paese spera di vivere, diventano un sospiro, uno sbuffo, e più nulla. In Afghanistan, che non vede la democrazia e la pace dal 1979, il vento di cambiamento non arriva, non soffia. In Afghanistan soffia solo il vento delle eliche, oggi come ieri, ed il sibilo dei missili gonfia il cielo e la terra. E nel silenzio dei media c’è il silenzio di un bambino che muore, della sua vita spezzata, del suo corpo in fiamme. Vite spezzate. Dai missili che il nostro indiscusso consenso fa esplodere sui loro cieli, sulle loro case, sulle loro ossa fragili, non ancora sviluppate. Domenica, giorno di resurrezione, è il 29 maggio 2011, anche a Nawzad – forse rendersi conto che condividiamo anche lo stesso tempo, oltre che lo spazio, sarebbe utile al fine di far accomodare nuovamente la ragione dentro le nostre cervella – , nell’Afghanistan meridionale. È il principale villaggio dell’omonimo distretto Nawzad, fra i più grandi dell’Afghanistan, che conta una popolazione di circa 50mila abitanti, la maggior parte dei quali di etnia pashtun. E pashtun erano le 5 bambine ed i 7 bambini che non vedranno più alzarsi i loro aquiloni nel cielo afghano, gli aquiloni che, proprio la notte prima, guardando stelle grandi quanto i loro occhi, sognavano di far librare nell’aria piena di sabbia e polvere da sparo di un Paese martoriato dalla guerra. Fossero stati trucidati dalla furia dei Tālibān, degli “studenti coranici”, i telegiornali di questa già data per rinata democrazia si sarebbero precipitati a raccontare l’accaduto. Fosse stato il loro zio squilibrato, con l’aiuto della figlia ed il beneplacito della moglie, a soffocarli ed occultare il loro corpo in un puro atto di follia, avremmo visto partire intere redazioni, camera in spalla, trucco in borsa ed espressioni d’orrore preconfezionate sul viso, alla volta di Nawzad. La avremmo viste partire da Fiumicino o da Malpensa, su voli speciali, fare scalo a Riyād, per poi atterrare a Shīrāz, e superare il confine fra Iran e Afghanistan su convogli ultraleggeri, protetti dai nostri soldati fino a destinazione. No, non sarebbero andati nemmeno in quel caso, per paura, per disinteresse, non sarebbero andati; ma sarebbe stata una bella occasione per raccontare della crudeltà dell’Islām, dei suoi riti barbari, per legittimare una spedizione che di scuse non ne ha più nemmeno una, per rammentare l’importanza dell’oscura morte di Osama Bin Laden sulla strada della pace. Ma il silenzio divora i palinsesti e le testate invece stavolta, perché a colpire, ad uccidere i bambini è, per l’ennesima volta – e per l’ennesima volta sotto un silenzio d’opportunità – la Nato, che – vuoi crederci o meno – siamo noi, i nostri governi, i nostri principi occidentali di libertà, diritti e democrazia.
È quasi finito maggio, e sarebbe arrivata l’Estate anche a Nawzad, per i bambini, ma la mattina della domenica due missili hanno sventrato le loro case, portandosi le loro membra – fino ad allora tutte intere, fino ad allora scrigni di fanciullezza e di gioia – nell’esplosione, ed oggi la Nato chiede scusa, parla di «errore», un po’ come quando urti inavvertitamente un passante o rovesci dell’acqua sulla tovaglia del pranzo. Ma ad i suoi «errori» la Nato ci ha ormai abituato, in Libia ultimamente, anche se in Afghanistan non è stata da meno.
29 maggio 2011 – già ricordato – , 13 vittime provocate da due missili contro due abitazioni, 12 bambini ed una donna spazzati via dal fuoco dell’Isaf (Nato), dopo un 2010 che – dice l’O.N.U. – fra kamikaze, mine, missili, rappresaglie, «azioni», «errori», ha fatto 2.777 morti civili. Il 15% in più rispetto al 2009 – dice sempre l’O.N.U. – , in un quadriennio che ne ha fatti registrare 8.832. Erano state 2.974 le vittime dell’attentato di Al-Qāʿida al World Trade Center. Vittime del terrore quelle, della vendetta queste.
17 maggio 2011, 4 vittime civili – non «insurgents», come sostenuto inizialmente dalla Nato – sono l’amaro frutto di un raid notturno dell’Alleanza a Gowmali, nei pressi di Taloqan, principale città della provincia di Takhar; il giorno successivo, una manifestazione di protesta per chiedere la cessazione dei raid dell’Isaf, con 2000 persone per le strade, contro il Provincial Reconstruction Team del capoluogo, provoca altri 11 morti ed una cinquantina di feriti, fulminati dagli spari della polizia. Revival del primo aprile a Mazar-e-Sharif, quando l’assalto ad una sede O.N.U. provocò 12 morti. Mentre i razzi comandati da Bruxelles sparano sui bambini le madri i nonni, e i talebani distribuiscono viveri e carburante fra la popolazione, qualcuno a Washington si chiede del perché non si riesca ad ottenere l’appoggio civile alla causa della libertà. Della nostra, non certo della loro.
20 febbraio 2011, i morti dell’Isaf sono 64 a Ghazi Abad, provincia del Kunar; fra questi 20 donne e 29 fra bambini e ragazzi. Anche in quel caso la Nato si affrettò a ribadire il suo impegno ad evitare situazioni di questo genere, ed anche allora – come oggi – si dichiarava pronta ad istituire una commissione d’inchiesta sull’accaduto. Sarà la segretezza di tali inchieste, ma nessuna commissione Isaf – né O.N.U. – ha calpestato il deserto afghano dal 2003 ad oggi. Troppo caldo per tenere la giacca.
21 febbraio 2010, colpito presunto convoglio talebano, la Nato fa festa; in realtà sono 27 civili, a bordo di tre minibus, scambiati dai militari per cingolati da guerra. Il segretario della Difesa statunitense Robert Gates, fa la faccia dura, e con molto coraggio afferma: «i talebani usano scudi umani». Ora lo dicono pure in Libia, e credono di essere credibili.
26 luglio 2010, il governo Karzai rende noto l’ennesima strage Nato nell’Helmand, distretto di Sangin; i morti, schiacciati dal peso della palazzina che abitavano e che gli e crollata addosso, sono 45, tutti donne e bambini. Donne e bambini anche quelli che periranno in ospedale più tardi, 19 in tutto. Futuri terroristi probabilmente, e non vedo come biasimarli.
4 settembre 2009, 90 vittime civili nel distretto di Kunduz, Afghanistan del Nord; portano la firma – come sempre – dell’Isaf (International Security Assistance Force), missione di “supporto” al governo afghano istituita tramite risoluzione O.N.U. – ovvero da cinque individui poggiati con due chiappe per uno su comode poltrone disposte intorno ad un tavolo in un famoso palazzo newyorkese – e controllata dalla Nato – gli stessi cinque tipi, più un altro gruppetto di valletti, ventiquattro glutei in tutto, le stesse poltrone, lo stesso tavolo, stavolta a Bruxelles. La democrazia di cui ci fidiamo.
La lista finisce solo per pudore di chi l’ha redatta, non certo per quello delle milizie del bene che, a volte per ordini, a volte per paura, a volte per follia, scrivono un nuovo drammatico dato ogni mattina.
Oggi, che Wikileaks ha tirato fuori dal cappello 92mila rapporti del Pentagono dall’inizio della guerra, suscitando lo scandalo e la riprovazione del governo statunitense, e svelato la reale situazione dell’inutilità del cosiddetto “impegno internazionale” in terra Taliban, oltre che la più che probabile presenza di crimini di guerra nel conflitto, tutti ad opera della Nato, arriva un’altra goccia fredda per le presunzioni di giustizia e legittimità dell’ultima guerra del deserto dell’Occidente democratico e liberale, che ancora esulta per la morte di Osama Bin Laden, che uccideva per “volontà” e non per “errore”, ma che oggi non pare più terribile di tutte le facce di governo che siedono a New York o Bruxelles, e che portano la cravatta al posto del turbante. Mai come oggi sarebbe il momento che i popoli, così indignati, mettano in dubbio la fiducia che hanno riposto nelle loro autorità. Fiducia tradita da tanto tempo, in patria e fuori. Mai come oggi sarebbe il momento di ricordare, ricordare come i combattenti mujāhidīn rovesciarono – con le armi regalategli da Pakistan e U.S.A. attraverso l’“operazione Cyclone” – il governo democratico e socialista del PDPA di Mohammad Taraki, e di chi consegnò in mano ai “terroristi” Kabul, solo per vincere la guerra fredda. Sarebbe ora di capire di chi sono i morti dell’11 settembre 2001, e chiarire i lati oscuri di quel giorno. Sarebbe ora di pretendere la democrazia, che esiste soltanto se viene perseguita dentro e fuori dai confini nazionali. Sarebbe ora, ora che i giovani si ribellano ai vecchi, ora di cambiare. I bambini, intanto, in silenzio, ci guardano ed aspettano.