Cos’è il Kurdistan oggi? Il vezzo di un percorso pacificatore “in itinere”? Uno sprazzo di terra e uomini stremati da una spirale di sfacelo e devastazione? Un cortocircuito di scambio di idee e parole tra due popoli inconciliabili? I curdi. I turchi. Una simbiosi divenuta guerra piuttosto che osmosi. Il Kurdistan tutto questo lo è senz’altro. Ma è sufficiente sollevare una pellicola quasi invisibile, di certo ben camuffata, per poter scoperchiare un baule di Pandora colmo di bugie di scambio tra potentati, ipocrisie sottilmente intessute, la tela tarlata e marcia del ritratto di sé che l’umanità ha nascosto in cantina.
Il Dorian Grey della civiltà incivile. Perché il Kurdistan è innanzitutto il prodotto sporco e indegno di un silenzio assenso più immondo e vergognoso delle macerie e dei cadaveri su cui donne e bambini curdi si sono stancati di poggiare il piede. Il provento di un ipocrisia che stigmatizza il male e la guerra e vi costruisce sopra la sua fortuna. Il resto del mondo che tace davanti all’orrore. Troppi gli interessi in ballo da contemperare, troppe le inflessioni economiche che andrebbero inevitabilmente gestite con la realizzazione di un vero “cessate il fuoco”. Che la Turchia sia d’abbraccio alla più grossa base militare italiana del Medioriente, che sul suo suolo scorra un dedalico groviglio di oleodotti e gasdotti con meta l’”Occidente”, che le armi impiegate per far divampare sempre più le fiamme irriducibili del conflitto rechino il marchio empio del made in Italy, France, England, USA, sono realtà di fondo che in pochi hanno a cuore di mettere nero su bianco. Così è lo sfrangiarsi di un popolo che vuole farsi Stato, al confine tra quattro Paesi mediorientali – la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria – la ragione che i manuali di scuola indicano come il casus belli, il vero motivo della feroce trincea di guerriglia. Un “complesso quadro politico” – come di certo in tanti amano qualificarlo – una moria angosciosa di figli e padri – come i curdi lo vivono.
Perché la situazione politica, i brogli elettorali, le intimidazioni in prossimità delle urne, il dissenso ideologico sono solo l’altra faccia, quella certamente ripulita e più presentabile, che l’Occidente perbenista e facile alle astratte esaltazioni pacifiste può tollerare di leggere sui suoi giornali o di raccontare ai propri figli. Non si parla di una delle “Madri della Pace” – l’associazione che tiene il passo a quella delle madri argentine di Plaza De Maio” – che ha visto evaporare le proprie speranze di ritrovare i cadaveri dei due figli uccisi, nel raccapricciante monito di un rappresentante dell’esercito turco: cessino le ricerche altrimenti anche il terzo figlio, già arrestato, farà la stessa fine. Non si parla della violenza crudele e del tutto indebita che alle stessi madri viene quotidianamente inflitta con l’allontanamento coatto dei loro figli incarcerati verso luoghi di prigionia più lontani. Così una donna, probabilmente vedova del marito guerrigliero, già in lutto per i propri ragazzi uccisi o peggio scomparsi nella spirale di morte di un conflitto insidioso, è costretta ad avventurarsi in un cammino di circa 2mila chilometri per raggiungere l’estremo ovest del paese. Duemila chilometri e una visita di una manciata di minuti al figlio detenuto. Solo dieci per l’esattezza. Perché le carceri turche sono uno dei meglio oliati strumenti di tortura che possano esistere.
Non solo per via delle violenze anche sessuali inferte, dei trattamenti cruenti che vanno dalle percosse con bastoni alla rottura di ossa a vivo. Il vero tormento è l’isolamento notturno e diurno. Perpetuo. Continuato. Si tratta di una tattica di sfinimento mentale degna della più sadica tra le devianze. Centonovantamila detenuti. Celle singole di un metro per tre, qualcuno in più se gli individui “ospitati” sono due o tre. Si finisce per impazzire a fissare un muro che non si allargherà mai su altro orizzonte che non sia un grigio sporco poco distante dal proprio viso. Si impazzisce anelando un pezzo di cielo da vetrate sul soffitto, all’interno di stanze in cui detenuti entreranno raramente. Intere settimane senza rivolgere la parola a un altro uomo. Non nei punti di aggregazione – che in queste carceri sono illustri assenti – non per telefono – dato che una militarizzazione delle strutture carcerarie centellina una volta al mese, una a settimana nei casi “migliori”, le telefonate ai parenti. Anche in tal caso qualche spicciolo di minuto rubato alle quattro mura di spettanza che li inghiottiranno nuovamente. Di lì a poco. Un compiacimento malvagio sconfinante nella perversione quello che partorisce persino l’idea di tener segregata una detenuta malata terminale in una cella proprio antistante alla camera mortuaria. E sono almeno 600 i prigionieri curdi malati in tutta la Turchia. Almeno 122 gravi. Nessun referto medico od ospedaliero potrà indurre i loro aguzzini a consentire loro di varcare le soglie di quei mattatoi. Persino le emergenze saranno un modo per affermare una supremazia animalesca sul fratello tenuto in scacco. Così il malato bisognoso di un ricovero d’urgenza sarà costretto all’interno di un’ambulanza in attesa che il mezzo effettui il giro di tutte le altre carceri e “raccolga” gli altri detenuti con richiesta di ricovero. Vi starà dentro per 10 giorni. Infine morirà, senza nemmeno essere giunto in ospedale. E qualora si creda che nemmeno il più truce dei reati elencati dal più esaustivo codice delle leggi possa giustificare un così barbaro trattamento, si sappia che i curdi in carcere ci finiscono solo per essere tali. Per aver parlato la loro lingua, il cui uso è severamente interdetto dal regime turco, per aver proclamato i propri diritti, per aver fatto propaganda a favore di uno stato unito o anche semplicemente per aver diffuso opuscoletti di istruzioni in lingua curda o aver danzato agitando le proprie bandiere in occasione del tanto sentito “Newroz”, il Capodanno Curdo che si tiene annualmente il 21 marzo. Sono le memorie sussurrate ma esplose in un moto di sdegno, rese dal medico messinese Alfonso Augugliaro, di rientro da una delle spedizioni organizzate dalla ONLUS “Alessandria verso il Kurdistan” che si occupa di sostenere il paese con progetti ambulatoriali, ospedalieri, scolastici. Lo stesso che ci rivela le radici di un risentimento profondo che i curdi nutrono o forse non possono non nutrire per i connazionali turchi, che ci regala la testimonianza di un incontro, nel lontano ’97,con Abdullah Ocalan, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, oggi detenuto nell’isola carceraria di Imral nel Mar di Marmara. Ocalan nel colloquio spiega le motivazioni.
Le sue motivazioni. Quelle che lo hanno spinto a imbracciare il kalashnikov, a posarlo innanzi a sé anche sul desco, a combattere da leader la battaglia del popolo curdo. Aveva appena 15 anni quando, colto a parlare in curdo con la madre, si ritrovò ad essere aggredito da un guardiano del villaggio.
Un violento ceffone alla madre, una cicca di sigaretta spenta sul palmo della mano e da allora, come un anatema, Ocalan lanciò la propria dichiarazione d’odio al nemico turco.
(Sara Faraci)