É un tranquillo 12 Dicembre, a Milano. Poche ore alla chiusura dei negozi, poco tempo per gli ultimi acquisti. I passanti alzano distrattamente il bavero della giacca, mentre sbirciano con rapidità le lancette dell’orologio. Fa freddo, maledettamente freddo.
In Piazza Fontana, la Banca è affollata da correntisti e piccoli investitori, perlopiù venuti dalla Provincia. Sono le 16.36 di un tranquillo 12 Dicembre, a Milano.
Poi, uno scoppio. Un’improvvisa deflagrazione. I primi morti, i troppi feriti. Una catastrofe, una strage. La madre di tutte le stragi, gong di inizio per un drammatico decennio.
Era un tragico 12 Dicembre, in Italia. Era il 1969.
Undici anni dopo, si consumerà il più grave atto terroristico dell’Italia postbellica: il 2 Agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna, in una piccola sala d’aspetto gremita di viaggiatori, esploderà un ordigno a tempo. Una valigetta abbandonata, anonima, ben nascosta. D’improvviso, è di nuovo morte. L’ultimo, folle gesto di una Nazione sfinita da divisioni partitiche e lotte intestine. Sfinita da campagne sovversive e reazione governativa. Dilaniata da esplosivi e colpi di pistola.
Doloroso passato, laceranti ricordi. Eppure è il nostro, di passato. Stentiamo a parlarne, nelle scuole, sui giornali. Dimenticare è più facile, infinitamente più comodo.
È un decennio nascosto nella memoria di chi lo ha vissuto, sotterrato da cumuli di presente. Un decennio volutamente celato da sfuggenti strette di mano, da titoli ambigui di insospettabili quotidiani. Ma non tutti hanno voglia di dimenticare: Dario Fo, Premio Nobel per la letteratura e regista teatrale di indubbio successo, ricorda quanto la memoria possa essere preziosa. A suo dire, la conoscenza di ciò che è stato è fondamentale per tracciare le linee di un domani possibile. “Non si può sapere dove si va se non si sa da dove si viene”, ci rammenta con convinzione. E non si sbaglia.
REAZIONE O RIVOLUZIONE? COSA È ACCADUTO NEI TORMENTOSI ANNI DI PIOMBO?
“Non è stato affatto un periodo semplice. Gli atti di terrorismo erano frequenti e gli scontri erano all’ordine del giorno. Scoppiavano ordigni e agli artificieri toccava detonare quelli inesplosi. Era tempo di lotta armata, intimidazioni e ripercussioni. Nessun posto era abbastanza sicuro per chi declamava le sue verità. Al giorno d’oggi si tende ad attribuire la colpa di tutto alle Brigate Rosse: è questa l’opinione comune, di chi non ha avuto modo di conoscere i fatti. Ma le cose non sono andate così. I brigatisti non sono affatto i responsabili di tutto il sangue versato in quegli anni.”
E CHI È IL VERO RESPONSABILE?
“Lo Stato naturalmente. Quella componente deviata dello Stato che ha fomentato, promosso e addirittura ordito trame simili.
Quel 12 Dicembre erano state piazzate diverse bombe, nei pressi di alcuni istituti di credito. Ebbene, a esplodere è stata quella di Piazza Fontana: lì si trovava la banca dei proletari, della povera gente. Il denaro dei signori, degli uomini ricchi, non è stato toccato. Un caso? Niente affatto! C’erano persino degli ordigni non funzionanti, piazzati soltanto per seminare il panico. Ricordo che proprio quel giorno, una delle bombe inesplose è stata immediatamente smantellata da chi di dovere, senza aspettare che si facesse luce sulla faccenda. Sarebbe stata utile, avrebbe potuto fornire dettagli preziosi agli inquirenti. Eppure, è stata fatta brillare nel giro di poche ore.
Non si andava in cerca dei veri responsabili, perché le colpe reali ricadevano proprio sullo Stato. Quanto detto vale naturalmente anche per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Ancora oggi grava un pesante velo di silenzio sui retroscena, sulle macchinazioni ad opera delle alte sfere. E le istituzioni fanno di tutto affinché tutto resti com’è. È così che funziona la macchina vincente del potere: il crimine è insito nel potere stesso ed è questo che lo rende invincibile.”
COS’É CHE VIENE TENUTO NASCOSTO?
“I nostri governi hanno volutamente infangato, offuscato le vere conquiste di quel periodo. È nata una nuova coscienza civile, ha preso piede l’idea di partecipazione concreta – lo ricorda Giorgio Gaber, in una delle sue canzoni – la base di ogni forma di democrazia. Gli eventi di maggiore risonanza si possono enumerare con facilità, li conosciamo tutti. Ma non basta. Il nostro è un Paese dove vige la disinformazione, l’ignoranza. Impedire ai giovani di guardare con chiarezza al passato equivale a castrarli, ostacolare la costruzione di un futuro consapevole: il nostro passato, seppur drammatico, non può essere ignorato. Anche i gesti straordinari vengono minimizzati, se non addirittura passati sotto silenzio: si pensi all’operato del giudice Falcone, alla sua grandezza. Di lui non rimane che qualche targa, qualche stanca e sterile marcia commemorativa, niente di più. Di altri, neanche questo.”
QUALI ERANO LE SUE PERSONALISSIME BATTAGLIE?
“Mi battevo proprio per la libera informazione. Cercavo da fare in modo che tutti fossero a conoscenza di ciò che stava accadendo in Italia. Tutti i miei lavori recavano in sé piccole verità che le istituzioni preferivano tenere per sé: si tratta di circa venti spettacoli volti a rappresentare la lotta di classe, la logica della violenza, i giochi di potere, la sofferenza degli oppressi. Desideravo che chiunque potesse comprendere i meccanismi preposti alle stragi, alla guerriglia, agli scontri armati. Il mio era un teatro destinato al popolo.”
ED È QUESTA LA RAGIONE CHE LA SPINGEVA AD ESIBIRSI NELLE PIAZZE, NELLE SCUOLE E PERSINO NELLE FABBRICHE?
“Proprio così, e non ero il solo. Al mio fianco c’era Franca: se la cavava egregiamente. Recitò anche senza di me, alla FIAT di Torino. In quella occasione io mi trovavo in una scuola occupata, ancor più a Nord di Torino.”
COME REAGIVA IL PUBBLICO ALLE SUE PERFORMANCES?
“Era partecipe, assolutamente. Si trattava prevalentemente di giovani, universitari e lavoratori. Erano davvero tanti, circa diecimila persone – quando avevamo l’occasione di recitare al palazzetto dello sport. Talvolta erano proprio gli spettatori ad informarci sugli episodi di violenza, sui soprusi ad opera dei poteri forti, che spesso la gente comune era costretta a subire. Le loro dirette testimonianze costituivano una componente importante del nostro lavoro.
Ricordo che agli spettacoli seguivano dibattiti, discussioni che duravano ore. Certo, la componente ludica non mancava: riderci su era necessario, era lo strumento indispensabile per smantellare stereotipi sociopolitici. Mettere in scena i paradossi del sociale, rendere palesi le falsità, le contraddizioni, era il primo passo per rendere consapevole il nostro pubblico.”
FARSA, SATIRA DI COSTUME E PERSINO QUEL MATTO CHE CI RIVELA SCOMODE VERITA’. IL SUO TEATRO RIEVOCA FORSE QUELLO PIRANDELLIANO?
“Per niente. Con Pirandello non ho nulla in comune: era legato al fascismo e i suoi spettacoli ne sono un’innegabile testimonianza. Evitava accuratamente argomenti come la lotta di classe, la necessità di sconfiggere l’ignoranza, la sofferenza della gente comune. Il suo teatro è un elogio alle classi dominanti, nulla a che vedere con il mio.”
SE PIRANDELLO ERA UN FASCISTA, LEI SI POTREBBE CONSIDERARE UN ANARCHICO?
“No, non proprio. Non sono un anarchico, ma un libero pensatore. Questo significa non avere nessun tipo di limitazione, nessuno standard mentale a cui far capo. Essere incasellato in base a rigide categorizzazioni non fa per me.
Non ho mai accettato alcun condizionamento, se non quello del mio pubblico.”
Giorgia Medici