L’arroganza del potere non ha tardato a palesarsi. 307 contro 252, la “riforma” Gelmini passa alla Camera. “Siamo gli strumentalizzati”, “siamo i fuoricorso”, “siamo i centri sociali”, “siamo i difensori dei baroni”, “gli studenti veri stanno a casa a studiare”, “gli studenti veri pensano alle belle ragazze”. Gli studenti stanno a casa a studiare,i professori stanno a scuola ad insegnare, gli operai stanno in fabbrica a lavorare. Ognuno ha il suo posto e deve stare lì, tranne un giorno all’anno, il bel giorno in cui si va a votare, in cui si da il “mandato del popolo” al principe di turno. Il principe bravo a leggere sui monitor delle sedi di partito i risultati elettorali, ma sordo all’urlo della protesta e cieco alla rabbia della ribellione. Bella storia la nostra democrazia, la democrazia di un Palazzo eletto dal popolo e nominato dai partiti, di una classe politica autoreferenziale e illegittima, di un Castello cieco di fronte ad un Paese in fiamme.
Alexis de Tocqueville non era Michail Bakunin, né tantomeno un fuoricorso, e ai nostri cari capi liberali piacerà sicuramente pensare che Mary Mottley, sua moglie, sia stata una “ragazza che merita”. D’altra parte, Ad Alexis sarà piaciuto pensare ad una democrazia diversa da quella che temeva:
«Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso (…). Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro il fastidio di pensare e la fatica di vivere?
E’ così che giorno dopo giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di sé stesso (…). I nostri contemporanei (…) immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini; combinano centralizzazione e sovranità popolare. Questo dà loro un po’ di sollievo. Si consolano del fatto di essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori. (…). In un sistema del genere i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per designare il loro padrone, e poi vi rientrano».
Per questo gli operai devono restare in fabbrica, gli insegnanti a scuola, gli studenti a casa, gli elettori alle urne. Siamo solo questo, macchine da voto. Il voto è una merce di scambio, un bene di consumo dalle scadenze prestabilite, la prigione costante che ci lega indissolubilmente ai nostri padroni. Esistiamo solo dove ci è dato il permesso di esistere, entro confini stabiliti che non ci è dato di varcare, schiavi nella finzione della nostra libertà privata, privati della capacità di operare per noi nei nostri interessi e nelle nostre ragioni, tacciati di “terrorismo” ed “eversione” ogni volta che proviamo a scavalcare il cancello, come se la nostra lotta non sia altrettanto legittima – od illegittima, non fa differenza perché queste parole non hanno alcun significato – ed altrettanto fondata sulla forza, rispetto alla loro capacità di comandare e redarguire, concedere e proibire. E noi siamo inerti. Mangiamo in maniera accurata secondo i parametri giusti stabiliti dall’esterno, e così anche ci vestiamo, dormiamo, facciamo l’amore. E studiamo. Studiamo come ci è imposto, in silenzio, gli occhi sui libri, i gomiti poggiati sul tavolo e la faccia tra le mani, le nozioni in testa e le idee nel culo. Siamo i frutti acerbi di questa Università, frutto marcio anch’essa della società del giusto e dello sbagliato, del legittimo e dell’illegittimo, dell’utile e dell’inutile, del legale e dell’illegale. Ed è dentro questa Università marcia che cresce bene il verme dell’ignoranza, del sudditismo, del clientelismo, dell’incapacità di pensare, dell’impossibilità di agire, della paura di cambiare. Ed è per lo stesso motivo che gli stecchini che in questo momento vogliono – e rischiano – di infilzarlo davvero questo verme, fanno paura ai capi, che fino ad ora hanno nutrito con cura materna il verme loro figlio.
Quest’ultima riforma dell’Università non è un’assurdità, non scherziamo. Il ddl 1905, il ddl che il ministro Gelmini ha pattuito con i rettori italiani – quelli che ora sospendono le attività didattiche e protestano, quelli che ora si dicono vicini agli studenti e lontani dai politici – è decisamente coerente con l’Italia del precariato, della disoccupazione, del lavoro nero, dei potenti e dei potentati, delle logiche aziendali e delle esasperazioni autocratiche. D’altra parte, perché lo Stato dovrebbe spendere circa 100mila euro – per ciò che riguarda esclusivamente l’istruzione che va dalla scuola primaria alla media superiore – per ogni testa che, se non trova il coraggio di risalire le scivolose e umide pareti bianche della ceramica, è destinato a restarci per sempre lì dentro, almeno fino a quando un provvidenziale quanto distante sciacquone non lo salverà dal puzzo tremendo della propria putrefazione? Perché il “nostro” Stato dovrebbe sprecare risorse preziose, in questo momento di crisi che rischia di scalfire debolmente persino qualche spicciolo delle elite economiche di sempre, per cervelli che non utilizzerà mai? O meglio, per cervelli possibilmente addestrati che, oggi come in ogni tempo, non riuscendo ad abbandonare il vizio del pensiero, si trasformano in elementi poco controllabili agli occhi dei regnanti? Perché illudere nuove generazioni di laureati di avere un futuro vero in questo Paese, quando la percezione del muro invalicabile della corruzione, dello strapotere delle oligarchie politico-mafiose, del cedimento delle basi delle strutture che ancora conservano un inganno di democrazia, è molto più che evidente? La “riforma” Gelmini è l’atto misericordioso dello Stato, l’azione demistificatoria del padrone, che rivela al vecchio schiavo che i suoi servigi non gli sono mai serviti al fine della libertà. La “riforma” Gelmini – aldilà delle menzogne dei mezzibusti e dei messaggi su youtube – è abbastanza riassumibile in questo: potere monocratico e assoluto dei rettori degli atenei; demolizione della già fortemente menomata democrazia accademica; annientamento del diritto allo studio ed esclusione sostanziale delle fasce di reddito più basse dall’istruzione universitaria; precarizzazione progressiva della figura del ricercatore e modalità di selezione della componente docente pressoché arcane; condizionamento degli ambiti e delle modalità di ricerca e didattica da parte dei privati, senza un obbligo effettivo di contribuzione alle casse degli atenei; ampliamento, attraverso metodi di valutazione dei diversi atenei su basi prettamente economiche, del divario Nord-Sud. E come dargli torto. In una società dove i pochi regnano incontrastati sui molti, quale metodo migliore per raggiungere la pace sociale se non quello di un’istruzione aristocratica, volta – ancor più di ora, se è possibile – al controllo totale delle masse? Forse il prossimo vicinissimo passo. L’abolizione del valore legale del titolo di studio e la creazione di un sistema universitario ispirato al modello americano, dove l’ingresso nel mondo del lavoro qualificato è concesso quasi esclusivamente – fanno eccezione gli assegnatari di borse di studio, qui naturalmente inesistenti – ai figli delle classi dirigenti e delle elite economiche nazionali. Il “ddl” – quasi soltanto “l” – Gelmini conta il merito nelle tasche delle famiglie degli studenti.
Non ci sono i baroni a dormire nelle nostre facoltà e nelle nostre scuole occupate, a spaccarsi la schiena sul pavimento gelido, a combattere contro gli spifferi e contro chi si ostina a non capire, a non vedere, contro quelli a cui non frega nulla del proprio futuro, e ti accusano, ti sputano addosso, ti diffamano al punto che arrivi a pensare che vorresti mollare la lotta solo per farli soffocare nella merda che tanto gli sta bene. Ma poi ti rendi conto che anche se la merda gli penetrasse giù per la trachea fin dentro i polmoni, nemmeno se ne accorgerebbero, e ti ricordi di te stesso, la persona per cui in primo luogo stai combattendo.
Il Parlamento si crede forte nelle sue mura insonorizzate. Quello che non immaginano i potenti è che anche noi abbiamo consapevolezza della nostra forza. Il Parlamento è «lo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate». Non ricordo più dove ho sentito queste parole, forse Mario avrebbe saputo dirmelo. Siamo in piazza anche per lui.