Il numero delle morti che lambiscono le coste del Mediterraneo è una cifra a potenza infinita. Si colloca tra la rassegnazione per un vero e proprio genocidio e lo sgomento per vite violentemente interrotte.
Il viaggio di partenza, sulle carrette via mare, permette alla speranza di salpare, ma il suo arrivo in terra ferma è incerto, serrato nelle mani di un caronte spesso assassino. Fotografie, video, statistiche annuali e “alterità da noi” talvolta finiscono per cristallizzarsi nelle assenze cimiteriali e in quell’imperturbabilità che si schiuderà subito dopo lo spegnimento del canale mediatico.
Forse saranno poche le storie che resteranno, come Aylan, il bimbo di tre anni, la cui vita… anzi, la cui assenza di vita si è trasformata nella rappresentazione di tutte le morti, in un funereo simbolismo che ha colpito (giusto qualche giorno) la nostra sensibilità.
Gli sbarchi o i naufragi sembrano notizie indifferenziate nel tempo, tranne quando i media ci ricordano quanti bambini e quante donne vi erano a bordo e sono finiti nel gelo del mare. Naufraghi e morti senza nome in servizi giornalistici, tranne sporadici casi. Oltre ai bambini, le donne in stato di gravidanza sollecitano certi immaginari relativi alla “cura”, al “materno”, alla convessità fisica che per alcuni va tutelata, perché rimanda l’esistenza di un “oltre” quel singolo corpo esteticamente visibile.
Ma qual è la fine di queste donne, dopo l’accoglienza, il riconoscimento, la schedatura, la coperta, il pasto caldo (se è tale), dopo insomma le prime fasi del “pronto intervento”? Dove finiscono?
È come se si aprisse, d’improvviso, un gigantesco buco nero arredato dalla burocrazia che le divora e le rende “un progetto personalizzato”. Di fronte a un migrante, donna o uomo che sia, l’opinione della popolazione si divide tra due poli. Nella polarità positiva, c’è chi percepisce in quei volti e in quelle storie un bisogno estremo di normalità, che va oltre i momenti di fame e di freddo. È quella consapevolezza di bisogno di libertà che tocca la vita di tutti gli esseri viventi che respirano sul pianeta terra e che non ha nazionalità. Una narrazione lontana dalla compassione, dalla pietà, dai luoghi comuni. Un discorso che ci fa restare umani, per parafrasare Vittorio Arrigoni.
Spesso, di fronte a uomini e donne che sbarcano (vivi), la prima cosa che accade è la fatica di pronunciare il nome dopo che ti viene detto. Subito dopo, la fatica di riconoscere un colore di pelle differente, un odore che non ci ricorda nulla di occidentale. E come dimenticare quelle associazioni che hanno strane missioni al loro interno? Da una parte ci chiedono inclusione sociale e culturale. Dall’altra omettono la verità e la loro appartenenza a un circuito economico che ciclicamente ingrassano. Circuito nel quale le donne e gli uomini sono dativi passivi: un numero, una collocazione magari in uno SPRAR, tre pasti, un consumo, un progetto individuale redatto da un improvvisato servizio sociale che dimentica che l’autodeterminazione è differente per ciascuna persona e non solo per l’alterità migratoria che porta sulle spalle.
Adenike K., donna dagli occhi nerissimi, è una rifugiata (così la presenta a me la “sua” assistente sociale) ed è ospite di uno SPRAR siciliano. Conosce della lingua italiana poco: le minime frasi che le permettono di chiedere la soddisfazione dei bisogni primari. Figuriamoci chiedere la tutela di diritti di libertà e felicità, che magari neppure conosce da quando è nata. Per parlarci, ci aiuterà Myriam, una mediatrice linguistica.
Allungo la mano e Adenike la stringe come avesse un moncherino mosso dalla diffidenza. È chiaro: vuole capire cosa voglio da lei. Presentarmi non è semplice. Come dirle che sono interessata a documentare la sua storia? Mi sembra quasi di violare quello spazio di silenzio nel quale tenta di rifugiarsi. Sia io che Myriam restiamo stupite: non formulo ancora nessuna domanda, ma inizia a parlare lei e lo fa con la parola “casa”. Forse vuole andare a casa o forse vuole semplicemente una casa dove costruire una vita normale, lontana da tutto questo trambusto. E chi non lo vorrebbe, se fosse al posto suo?
Mi racconta di più. Mi parla, anche se a suo modo, del disagio per gli spazi condivisi, per una privacy inesistente anche se decantata. Riesce, non senza fatica, a dirmi che sono in tanti, quasi dispersi e che vorrebbe tanto ritrovarli. L’angoscia il fatto di non sapere dove siano finiti alcuni suoi compagni di viaggio. Mi fa capire che essere su un barcone vuol dire in quel momento preciso mettere la vita nelle mani del mare, quasi affidare a lui qualsiasi cosa, anche la possibilità di rivedere un giorno i propri cari. Mi fa capire che chi viaggia sul barcone diventa una famiglia e deve essere così, perché anche i migranti hanno bisogno di fidarsi reciprocamente e di sapere che in un momento di difficoltà non finiranno a mare per dare spazio ad altri. Il movimento del mare non è sempre accogliente, come una culla a dondolo. Il mare deve essere il più possibile tranquillo, calmo, piatto, facilitante. Perché più si muove, più si muore. Più si è a bordo, maggiore è la probabilità di finire a mare e nessuno si piegherebbe per raccoglierti e farti risalire.
Ad Adenike non interessa parlarmi della sua dimensione di donna, ma della sua dimensione umana, di persona, di numero, di smarrimento. Perché è quello che ritrovo anche quando riesco a strapparle, con battute semplici e immediate, un sorriso sui pasti e su ciò che non le piace. Non riesco a chiederle una foto, perché mi sento già di violare il suo spazio, tanto che parlo come se camminassi in punta di piedi.
Sul volto di Adenike sembrano lontane le rughe dell’età. I suoi 21 anni reclamano un bisogno di agire vita il prima possibile. Mi parla poco della sua famiglia. Capisco che questa scelta non è motivata dalla difficoltà della lingua: in realtà vuole conservare per sé ciò che non può essere condivisibile a tutti i costi.
Superata la paura di morire, Adenike mi fa capire che vorrebbe diventare invisibile. Sembra paradossale, ma è ciò che desidera divenire. Ha bisogno di normalità, me lo dice quasi chiaramente. Vuole tornare una persona anonima per non essere sempre “richiamata”, per non fare colloqui con l’assistente sociale che scrive ma che non la guarda, per non risultare un numero di salvataggio, per poter bere senza preoccuparsi che “l’acqua in casa sta finendo e deve bastare per tutti”. Vorrebbe, insomma, arrivare presto all’autogestione, all’autonomia, alla non dipendenza dal consenso e permesso degli altri.
Quando le chiedo cosa sogna, mi sorprende ancora una volta e mi dice che vorrebbe cucinare e scrivere canzoni. Vi chiederete come sia possibile! Ha rischiato la vita e vuole cucinare e scrivere canzoni! Già sento la voce di qualcuno: “dovrebbe dire grazie per i pasti e dovrebbe farsi bastare l’aiuto che riceve gratis!”.
Eppure, Adenike – come tutti gli altri suoi compagni e compagne di viaggio – cercano la vita, la libertà dalla guerra, non un sussidio, né la nostra occidentale e disgustosa pietà, che ostentiamo soprattutto se abbiamo i fari accesi o se apriamo (in ingresso, è chiaro) il portafogli. Alla donna che ho di fronte non interessa “il materiale”, mi fa capire che le manca la comprensione, lo spazio di svegliarsi senza rumori, la possibilità di non dover fare la fila per il bagno (trovandolo sempre sporco), la serenità di non avere paura della precarietà. Ha 21 anni, lo dice ancora. Mi spiega che è grata all’Italia per l’accoglienza e che non vuole lamentarsi, ma dopo un certo tempo si fa fatica a convivere nella costante conflittualità, oltre che diffidenza delle persone che abitano in città. Non è semplice, me lo dice chiaramente. Con la stessa semplicità mi dice che vorrebbe una maglietta in più, ma non la chiede perché devono bastare per tutti. Mi dice che è felice di essere viva, che è il regalo più bello di tutti, ma che essendo viva vuole adesso davvero vivere.
La trovo stanca, improvvisamente distratta chissà da quali altri pensieri.
La nostra chiacchierata fisiologicamente termina.
Proviamo a congedarci e mi faccio aiutare da Myriam a esprimere la mia sincera gratitudine per questo incontro e questa conversazione. Adenike non dice molto altro, d’improvviso mi abbraccia e mi chiede se le regalo un foglio e la penna. Strappo i miei pochi appunti e le lascio tutto il taccuino, oltre alla biro. D’improvviso, mi sono ritrovata un tesoro immenso in mano rappresentato da “oggetti” e “cose” per me di poco conto. Mi sento estremamente piccola. Quel dono semplice e rapido, che faccio con un mezzo sorriso quasi timido, mi sbatte in faccia il fatto che la vita di ciascuno di noi dovrebbe andare oltre le nostre professioni, le nostre certezze, le nostre apparenti sicurezze. Me ne torno a casa consapevole della potenza di un dono così “banale”, come un taccuino e una penna, per ringraziare qualcuno di aver aperto le porte della propria vita e di avermi dato spazio.
In fondo, la libertà è uno spazio di vita e di scelte così indefinibile, che darne un solo senso ci priva della stessa libertà.
Non penso che dimenticherò quel rapido sorriso e il suo semplice “grazie”.