“Agli uomini accade di essere felici….”

Proprio così …  agli uomini accade di essere felici …  non tanto perché posseggono il concetto di felicità,  ma piuttosto perché ne hanno sperimentato  la condizione.  A tutti è capitato di essere stati felici e concorderete con me che difficilmente si dimentica lo stato di felicità.  Ma come siamo consapevoli di aver conosciuto la felicità essendo stati felici, altrettanto consapevolmente dobbiamo riconoscere che la felicità è purtroppo un bene transitorio.

 Il contrario della felicità è il dolore,   anch’esso una condizione dirompente e  altrettanto familiare all’uomo.   Quando soffriamo per qualsivoglia motivo , oltre ad interrogarsi sulle ragioni del nostro soffrire, diamo modo alla sofferenza di elevare se stessa a problema fino ad arrivare a domandarci in generale,  anche  sul senso dell’esistenza. Chi soffre non accetta il proprio stato, si consuma nel rifiuto di  esso, si immagina in una diversa condizione che spesso funge da motivo di consolazione.

Questo succede perché quando gli uomini  vivono la felicità non si domandano perché si trovano in tale  stato mentale . Ci interroghiamo sul perché del nostro stato mentale solo quando proviamo dolore. Probabilmente, se ci ponessimo anche domande sugli stati mentali positivi ,  cesseremmo all’improvviso anche di essere felici, poiché come succede quando proviamo dolore, anche nel caso della felicità tenderemmo a problematizzarla.

L’interrogativo sul perché di un evento equivale,  infatti , alla formulazione dell’idea che quel che c’è potrebbe anche non esserci e che perciò la condizione di benessere in cui ci si trova è qualcosa che può anche dileguare. Tanto basta a turbare l’incanto, a insinuare nello stato di pienezza un senso di precarietà sia pur determinato e sufficiente a dissolvere le certezze. 

Avendo la felicità i caratteri dell’immediatezza, può bastare poco per essere felici, è altrettanto poco può bastare per non esserlo più. Basta  pensare che la certezza della propria condizione potrebbe essere perduta.

Oggi molti uomini vivono questa condizione. È vero che la felicità la si può conquistare, ad esempio tramite il lavoro, tramite la vigile attenzione al futuro … ma il futuro può essere tanto generoso nel dare e altrettanto rapace nel togliere.

In queste situazioni si preferisce parlare non di futuro, ma  di destino, condizione più facile da accettare, da mandare giù, basta convincersi che un evento sia inevitabile.  Ma il futuro  che  pare materializzarsi davanti  a noi è frutto della instabilità,  più  triste che fatalista.

Se la felicità e la tristezza degli adulti, al giorno d’oggi viene legata spesso al destino, i giovani sembrano legare la felicità a un qualcosa che assume le fattezze della fortuna.

Se ci pensiamo bene anche il concetto di fortuna (analogamente, quello di sfortuna), è stato tradizionalmente  associato a quello squisitamente metafisico, di destino (favorevole o sfavorevole a seconda del caso). Il termine fortuna, in forma completamente autonoma, nasce a seguito della relativizzazione del concetto di destino in funzione della comparazione delle condizioni specifiche degli uomini.  Ad esempio, una persona può essere considerata più fortunata di un’altra.

In tal modo, la relatività, la variabilità e la limitatezza che caratterizza strutturalmente la fortuna ha comportato una sua frammentazione che sembra originare dall’autonomia che il termine ha assunto nel corso del tempo rispetto al concetto di destino.

La fortuna, perdendo il “legame privilegiato”con il destino, sembra perdere anche la propria essenzialità metafisica, divenendo un parola vuota, dal limitato significato, da colmare (pragmaticamente) con l’invidia o la superbia (a seconda che si consideri una persona fortunata o sfortunata) anche attribuendo alla stessa valenza morale (buona e cattiva fortuna).

Volendo rintracciare la causa della separazione sopra descritta, la si può individuare nella struttura della moderna società post-metafisica, caratterizzata dal  nichilismo e dal determinismo materialista,  i principali responsabili di tale processo, i quali, finiscono per far caratterizzare la fortuna come mero evento favorevole di giuochi e lotterie.

Perciò, essa, può essere innalzata anche al di sopra del destino, considerato oggi più oscuro ed incomprensibile che mai. All’estremo, un mero “gratta e vinci” può finire per assumere maggiore valenza, nella vita delle persone, dell’operare delle forze cosmiche del destino.

Nicoletta Rosi