È stato in silenzio per troppo tempo Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone. Sopravvissuto alla strage di Capaci, è oggi conteso fra la dolceamara melanconia dei ricordi e un’inestinguibile brama di riscatto.
Dopo oltre vent’anni da quel fatidico 23 Maggio, Costanza racconta l’accaduto con una lucidità disarmante: i suoi non sono rapidi flashback confusi, stralci di memorie gettate alla rinfusa in un angolo nascosto della mente. D’altronde giornate simili non si dimenticano, e così l’intero periodo trascorso al fianco del magistrato, dal 1984 al 1992.
Se nell’attentato il Dottor Falcone e la sua consorte Francesca Morvillo hanno perso la vita, per Costanza si è invece aperto un nuovo capitolo, fatto di delusione e smarrimento, solitudine e rabbia. Ce ne parla dopo molto tempo, disilluso ma non al punto da gettare la spugna. Seduto al tavolino di un bar, si ostina ad enumerare le sue lunghe e faticose battaglie, nella speranza di non dover più combattere da solo.
Cosa significa sopravvivere ad un attentato di stampo mafioso?
“Significa rimanere senza difese, senza sostegno. Significa sperare in un riconoscimento del proprio ruolo, ma rimanere in attesa per anni. È passato molto tempo e troppe porte si sono chiuse alle mie spalle senza che lo meritassi. Non mi illudevo di poter sperare nella solidarietà di tutti, ma non avrei mai pensato ad una simile condizione di isolamento. Il vero problema qui sono i burocrati.”
Si spieghi meglio
“La gestione delle faccende di Stato, importanti o meno che siano, sono in mano ad un manipolo di burocrati con qualche titolo accademico ma senza contezza della realtà. Non hanno senso pratico, sono lontani dalla concretezza degli eventi e spesso non hanno idea di come muoversi. Sono rimasto schiacciato da un cumulo di scartoffie, mi è stato impedito di riprendere le mie mansioni ordinarie, a quanto pare non ero idoneo, poco importa degli anni trascorsi al fianco di un giudice del calibro di Giovanni Falcone.”
Dunque di cosa si è occupato dopo la strage di Capaci?
“Beh ne ho passate tante. Mi hanno relegato in un ufficio, il mio ruolo era pressoché fittizio, mi limitavo a timbrare il cartellino. Mi avevano assegnato una scrivania all’interno di una stanza, questo è tutto. Io però non mi sono accontentato, ho deciso di approfondire la conoscenza del computer e diventare così esperto informatico. Ho lavorato per un po’ di tempo in un ufficio alle spalle del tribunale, ma adesso non mi occupo più nemmeno di questo, del resto non sono è mai stato il mio obiettivo. La mia insubordinazione ha indispettito i più, pensi che si è parlato persino di infermità mentale. A sentir loro le mie parole non avrebbero alcun valore, sarebbero solo i deliri di un pazzo.”
Una condizione sicuramente avvilente, ma le gratificazioni non sono mancate…
“Più che altro hanno tardato ad arrivare, ma sembra che qualcosa si stia muovendo. Ad esempio, ho ottenuto che l’auto di Falcone, o almeno quel che ne rimane, venga esposta qui a Palermo, nei pressi del Tribunale. Non può rimanere all’interno di una teca, in una qualsiasi scuola di polizia penitenziaria: il suo posto è la nostra città ed è qui che ritornerà. E questo lo si deve soltanto a me.”
Quell’auto ha senza dubbio un significato molto forte, soprattutto per lei
“Certo, il giorno dell’incidente ero anch’io con loro. Non ero alla guida della vettura, Falcone ha preferito mettersi al volante, a fianco della moglie e così a me è toccato il sedile posteriore. Quel giorno il giudice era nervoso, piuttosto impensierito: gli ho chiesto di rendermi la copia delle chiavi e lui per tutta risposta ha sfilato le sue mentre l’auto era in corsa, ci muovevamo a 130 chilometri orari. Non so come sia stato possibile, ma la macchina non si è fermata, ha solo rallentato abbastanza da evitare che anche la parte posteriore saltasse in aria. Se sono rimasto in vita è solo per puro caso.”
Dopo il fallito attentato all’Addaura chiunque fra voi sapeva che la morte di Falcone era imminente. Perché allora continuare a spalleggiarlo e rischiare così la vita?
“Semplice, perché quell’uomo lo meritava.”
Lo sosteneva anche sua moglie, magistrato antimafia che per rimanere al suo fianco ha lasciato ogni cosa
“Assolutamente. Francesca Morvillo era una donna meravigliosa, di lei ho un ricordo ancora molto vivido: pensi che quando il giudice doveva partire, come da accordi andavo a prenderlo molto presto, intorno alle cinque di mattina. In quei casi Francesca non andava mica a dormire! Rimaneva sveglia con il marito, studiava le carte dei processi in sua compagnia. Li trovavo entrambi svegli, in vestaglia e con la testa china su mille e più documenti. Mentre attendevo che il giudice si preparasse, la Morvillo si allontanava alla chetichella e preparava ad entrambi un caffè. Una donna eccezionale.”
Cosa è rimasto del loro eroismo?
“Innanzitutto affinché qualcosa rimanga, è necessario rimboccarsi le maniche e adoperarsi per render loro giustizia. Mi spiego meglio: io credo che dietro gli attentatori, dietro gli esecutori materiali del delitto e, perché no, dietro la “cupola” si nascondano ben altre menti. I veri mandanti non vanno cercati fra chi si è sporcato le mani, ma negli ingranaggi corrotti dello Stato. È un’accusa forte la mia e d’altronde non è che una supposizione, ma bisogna trovare chi sia disposto ad alzare polveroni, andare oltre, scavare proprio lì dove si tenta di insabbiare ogni cosa. La vera domanda allora è: c’è qualcuno che voglia farlo?”