Nel 2018 è diminuito il numero di morti nel
Mediterraneo ma 2.262 migranti
hanno perso la vita o risultano dispersi.
E’ stretta sulle Ong con l’ennesimo divieto per Open Arms di prendere il mare. L’Onu stila il rapporto sugli orrori in Libia mentre in Europa è braccio di ferro sui ricollocamenti. Queste sono solo alcune delle informazioni diffuse nelle ultime ore, ma danno una idea chiara della complessità di un fenomeno, quello delle migrazioni, troppo spesso banalizzato e ridotto a pura retorica dell’invasione. Ne abbiamo discusso con la giornalista Angela Caponnetto, inviata di RAInews24 che si occupa dei flussi migratori nel Mediterraneo dal 2002, da quando aspettava su un pontile a Catania l’arrivo di 1000 curdi a bordo di una carretta.
Quattro
anni fa la Moas ha condotto il primo salvataggio nel Mediterraneo. Siamo
passati dall’esaltazione di quegli eroi alla criminalizzazione delle Ong. Da
cronista come hai vissuto questo passaggio?
Lo vivo con un grande
contrasto, la realtà dei fatti non coincide col sentimento che viene instillato
nell’opinione pubblica. Io ho iniziato prima ancora che il Moas effettuasse il
suo primo salvataggio, sulle navi militari. Dopo la morte di 368 persone al
largo di Lampedusa il 3 ottobre del 2013, ha preso il via l’operazione Mare Nostrum con cui l’Italia si fa
carico di tutto il traffico del Mediterraneo centrale. Mare nostrum però era
troppo oneroso, intervengono dunque Frontex e persino le navi commerciali, ma
non basta. Si continua a morire. A quel punto fanno la loro comparsa le navi umanitarie
e il flusso effettivamente aumenta, perché è chiaro che i trafficanti approfittano
della situazione.
Questo è un fatto, ma non
significa certo che le Ong siano organizzazioni criminali o abbiano legami coi
trafficanti, altrimenti lo stesso concetto andrebbe esteso ai militari
italiani, che sapevano benissimo dove andare, si avvicinavano a 20 metri dalle
coste libiche e fanno esattamente quello che in un secondo tempo sarebbe stato
addebitato alle navi Ong, ovvero salvare vite umane. C’è sicuramente un enorme flusso che va
gestito però pensando innanzitutto al valore della vita dell’essere umano.
Come
ti spieghi questa stretta sulle Ong?
Me la spiego come una necessità di fermare il salvataggio in mare perché, secondo un’idea generale che inizia col governo Gentiloni e l’allora Ministro dell’Interno Minniti, farsi trovare vicino alle coste attira un maggiore traffico di esseri umani. Si comincia quindi ad arretrare sempre più, ci si allontana dalle coste, fino a quando si sparisce completamente e si decide di fermarsi.
Il
rischio di lasciare ferme queste navi è un aumento importante di morti in mare.
Eppure questa parte viene taciuta.
Si, anzi viene detto il
contrario. Che ci sono meno arrivi e meno morti in mare. La verità è che non
essendoci più controllori non possiamo sapere quanti sono i morti effettivi.
L’ultimo dato dell’UNHCR è di oltre duemila morti e dispersi accertati nel
2018, con una riduzione dell’88 per cento di arrivi nel nostro Paese. Nel 2017 erano più di 3 mila ma c’erano molti
più controllori. Credo che una delle
volontà dietro questa stretta sia quello di non lasciare troppi testimoni. So
che è una cosa forte da dire ma la realtà dei fatti al momento è che non ci
sono più navi che pattugliano il Mediterraneo centrale. Non sapremo mai i dati
reali dei morti in mare.
E’
anche un problema di come vengono raccontati fatti e dati. Ormai le narrazioni
su trafficanti e migranti, su mafie africane e Ong si sono unificate. Nella semplificazione
eccessiva si perde però la complessità del fenomeno. Quanta responsabilità ha
in questo il giornalismo tout court?
Enorme. È una
responsabilità enorme. Le cose vanno spiegate in maniera lucida e obiettiva. E’
fondamentale che il giornalista sappia utilizzare le parole e i concetti in maniera
corretta e purtroppo in questo momento molti dei miei colleghi non lo fanno. Le
parole “clandestino”, “migrante”, “trafficante” vengono utilizzate come se fossero
intercambiabili. Il migrante non è un clandestino, sarà un futuro richiedente
asilo. Né è un criminale perché arriva senza documenti e permesso di soggiorno.
È fondamentale il messaggio che viene veicolato.
Come giornalisti abbiamo una grande
spada di Damocle sulla testa.
In
una tua intervista a bordo della Sea Watch un ragazzo 16enne spiegava “voi
siete liberi di venire quando volete e
di prendere ciò che volete, noi non
possiamo”. Lo diceva senza rancore nonostante quel ” liberi di prendere
ciò che volete” . Oggi in Italia si protesta prima ancora che arrivino e
con molta rabbia. Come lo spieghi?
E’ un paradosso, ma a loro
questo non interessa. In testa hanno solo la meta. Queste beghe non le
capiscono neanche. Un altro ragazzo mi ha chiesto “cosa pensate che siamo?
Dei cani?” Non riescono a comprendere la paura che hanno nei loro
confronti. Il loro mondo oggettivamente è diverso, soprattutto per chi viene da
un villaggio. E’ un mondo di estrema solidarietà, dove fanno la colletta per
poter mandare un giovane in Europa. Non hanno questa forma di rancore nei
confronti di chi ha la pelle diversa dalla loro. Sperano solo che qualcuno gli
apra le braccia.
Tu
sei una donna che ha visto e vissuto il Mediterraneo da più angolazioni. Dalla
parte privilegiata, da quella degli orrori
e dalle navi in mare. Sicuramente non è facile portarsi il Mediterraneo
dentro. Quanto e come ti ha cambiato da un punto di vista professionale e umano?
Totalmente. Talmente
tanto che mi viene un nodo alla gola. Perché è vero che il mare ti entra dentro
e muore dentro. E’ il mare che loro non conoscono e non hanno mai visto, lo
stesso che io so quanto possa essere pericoloso. Ha cambiato me, ma ha cambiato
fior fiori di uomini, di militari in divisa grandi e grossi che piangevano come
sto piangendo io adesso. La cosa incredibile è che arrivano spenti con l’orrore
dentro e il Mediterraneo riesce a dare loro la possibilità di non morire. E
sorridono. Ogni nave diventa un’arca di Noè che li porta verso un luogo sicuro.
Hanno passato l’orrore in Libia, prima ancora nel deserto, e ancor prima hanno
passato la povertà, la miseria, la malattia, la mancanza di qualsiasi cosa basilare.
La vita nei villaggi, l’ho vista coi miei occhi, è durissima. Noi non resisteremmo una
settimana. E’ terribile, ma nei villaggi è una vita ancora umana. Poi si
affidano ai trafficanti e quelle ferite le vedi nei loro occhi, sui loro corpi
e nel modo di raccontarti le cose. E’ impossibile restare uguali ed è
difficilissimo rimanere giornalisti. Si vive come il visconte dimezzato di
Calvino e questa divisione da una parte ti lacera e dall’altra ti dà una forza
enorme. E’ la forza della vita che ci impone di raccontare e di non fermarci
mai alla superficie.
Hai mai la sensazione di non riuscire a
comunicare quello che realmente accade e continua ad accadere?
Non basta mai. Il fenomeno è talmente complesso che non si chiude coi racconti di uno o di cento. Ognuno ha una storia diversa, un futuro diverso e con un esito diverso. Io ho sempre questa sensazione di non aver finito, ma intanto parliamone e andiamo avanti. Raccontarlo in maniera obiettiva è fondamentale, anche perché non è un crisi che si risolve dall’oggi al domani. La soluzione è comunque a lunghissima scadenza. Questo è un momento difficile perché si sta facendo una contro narrazione falsa che avvelena il clima, occorrono tante persone lucide che rispondano in maniera corretta e tanti giornalisti che sappiano raccontare.
Detto ciò quel che è avvenuto a Crotone è quel che accade in mare ogni volta: non guardi chi c’è sulla barca, allunghi la mano e lo porti in salvo. Poi si vedrà.
Ai grandi risolvere la crisi, ai piccoli salvare vite umane.