E’ una pentola a pressione Messina, negli anni del fascismo. Obbedienti figure al servizio del duce? Zelanti propalatori dell’ideologia di Stato? Silenziosi complici di misfatti politici? I messinesi ci stanno stretti in questi ruoli. Concedono il loro consenso formale ma non permettono che venga rubata loro l’anima del pensare. Da un lato abbozzano, sull’altare della sopravvivenza, pronti a preservare il loro piccolo mondo provinciale e retorico dalla falce impietosa del regime. Dall’altro puntellano un sottobosco sovversivo di opposizione ideologica. Un Giano bifronte che si nutre di riflessione critica, di vivace dialettica, di scambi accesi e continui, che rifiuta un approccio al governo ufficiale “calato dall’alto”, che elabora un’offensiva pungente nell’ambiguità di quel sottile confine che non può e non dev’essere mai superato – pena la morte sociale, l’esilio o ogni altro stratagemma di segregazione inflitto dai seguaci del duce.
Messina negli anni del fascio non è un caso raro in Italia. Mette in luce in modo netto le fratture interne al fascismo, che il regime stesso indefessamente tenta di ricomporre. C’è, infatti, esaltazione e smodata ammirazione da una parte. Eversione dall’altra. Sappiamo che infine vinse quest’ultima ma all’epoca il risultato finale non era di certo scontato e la partita si giocava più nei circoli letterari studenteschi e nei salotti “meno perbene” che nelle piazze con le armi. I primi a capirlo, un pugno di studenti universitari che faticosamente importano nella città dello Stretto l’idea di un prodigioso inganno al sistema. Perché non mostrare il fianco obbediente al regime per poi sfruttarne le stesse sinapsi? Perché non schermare la propria attività propagandistica contraria dietro la maschera del servilismo? Nasce il Gruppo Universitario Fascista, che è un nuovo volto dei GUF tradizionali. Proclama fedeltà incrollabile verso il regime ma invece ne beffa gli ideali ora con un’aspra polemica, ora con una satira pungente. Il Gruppo Universitario Fascista, un encomiabile cavallo di Troia, costruito in appoggio a quei valori universali che Messina non intende soffocare, neanche in nome del suo quieto vivere. <<Sempre a corto di quattrini>> – come dirà poi Francesco Tropeano, uno dei principali promotori della stagione poetica messinese in quegli anni – il GUF è anima, pensieri e parole. Che poi raccolga i suoi adepti in vecchi cantieri o ex caserme, in laboratori o locali sfitti, poco importa. L’essenziale è affondare le mani nella terra della saggezza popolare, senza timore di sporcarle, riscoprirne le radici ancora vitali e trapiantarle con fiducia nel nuovo suolo politico, arido e individualista, con la speranza che riescano di nuovo a vivificare. Il primo a dirlo, Enrico Fulchignoni, conosciuto come fondatore del “Teatro Sperimentale” nostrano, esuberante cugino di Adolfo Celi, per cui il vecchio retaggio di valori genuini è ancora un paletto invalicabile, <<la misura e il limite umano>>. Si avvia così nel ’13, quella che sarà destinata a diventare la spina nel fianco del regime.
Messina non dorme sotto il velo distorto che il duce va srotolando su ogni centro culturale d’Italia. Il suo Gruppo Universitario stenta a capitolare davanti agli affondi del neonato sistema politico e costruisce, mattone dopo mattone, il solido edificio di un’opera educativa che mira – nelle caute parole dello stesso Fulchignoni – a una <<corretta impostazione del senso critico>>. Per la prima volta il teatro trasfigura il proprio volto, diventa una sottile arma politica che sfrutta sapientemente quegli angusti margini di libertà che il regime ottusamente tollera o disconosce, nella fatale convinzione che si tratti solo di “artisti un po’ bizzarri ma di fatto innocui”. Lo spettacolo si fa carico a Messina di responsabilità ben più gravi di quelle di cui ordinariamente è depositario. Diventa veicolo garantista e insospettato di <<tutela sociale contro le iniziative non sorrette da presupposti chiari e precisi, da un diretto sussidio della competenza dei tecnici>>. Meno prudenti queste ultime affermazioni di Fulchiognoni che pienamente rispecchiano una visione più corretta del GUF, quella di cui ci parla la storia post fascista e che ancora risuona nelle parole del presidente Napolitano, anch’egli reclutato tra le ambigue maglie di uno di quei gruppi universitari, <<vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato>>, cenacolo di anticonformismo intellettuale concesso dall'<<indulgenza che allora si riservava, per retorica o per eccessiva sicurezza, alla gioventù>> – come risulta dall’esperienza, anche in tal caso diretta, del regista Turi Vasile – e che sistematicamente si serviva di questa credulità <<per liberarci di ogni condizionamento ideologico>>. Così, il Teatro Sperimentale di Messina al quale i membri disincantati del GUF nostrano danno anima e fattezze, diventa un “meta teatro”. Un momento di raccoglimento artistico ed estetico per giudicare se stessi dopo ogni rappresentazione. E poi il “meta teatro” diventa politica vestita della bellezza dell’arte. Calato il sipario, abbandonati i toni di scena, le luci, i costumi, gli attori hanno in serbo per la platea una messa a nudo dei sottili ingranaggi della loro attività scenica. Ma queste accese discussioni ben presto perdono i contorni della spiegazione tecnica, dell’espressione di un “credo” puramente artistico e scivolano lungo il pericoloso declivio del dibattito filosofico. <<Sottili argomentazioni e compiuti svolgimenti di pensiero, contrasti sulle idee culmine, sulle tendenze filosofiche minacciano di trasformarsi in questioni personali>> – riflette perplesso Giordano Corsi, altra figura di spicco del gruppo universitario antifascista messinese. Lo stesso Mario Landi, poi riscoperto come grande regista nazionale, afferma che <<uno spettacolo sperimentale ha sempre in sé qualcosa di pericoloso>> e il riferimento non è solo alla novità del genere, non ancora collaudato, che ogni volta soggiace al giudizio della ribalta; il rischio, l’azzardo vero è <<anche nei testi>>. Una riflessione arguta che egli matura porgendo l’occhio alle interpretazioni sceniche di Adolfo Celi e alle successive digressioni dialettiche tra gli attori, che quasi si estraniano dal loro auditorio, costretto alla scomoda posizione di passivo ascolto.
Lo stesso Celi è quindi reclutato nella trincea dei teatranti antifascisti. Quello che poi conosceremo come il malvagio antagonista di Sean Connery in 007 o come il “professor Sassaroli” in “Amici miei”, l’artista poliedrico che presta il proprio volto a cinema e teatro e, ancora, televisione, mette al servizio del GUF messinese la propria straordinaria ecletticità. Dal ’36 al ’42, dal suo esordio di attore nel pirandelliano “Sogno (ma forse no)” sino al momento in cui avverte l’esigenza di spezzare i confini cittadini e nazionali trasferendosi in Brasile e fondando un nuovo “Teatro Stabile”, un giovane Adolfo Celi si adopera a dar manforte a Landi e Fulchignoni, i due cugini che lo coinvolgono puntando su quella passione prepotente che Celi nutre verso la recitazione, quel fuoco sacro che non può far altro che rinvigorirsi, contro ogni puritana aspettativa del padre e della famiglia che lo vorrebbero, invece, dotto studioso universitario. Parte, dunque, dallo spettacolo la dissociazione di Messina nei confronti di un regime che man mano va avventurandosi in scelte sempre più compromettenti, pericolosamente vicine alla folle epurazione razziale ferocemente cavalcata dal nazismo. Si rafforza poi nelle scelte letterarie che completano il panorama di una silenziosa rivolta al fascismo. Le contraddizioni, gli ingegnosi paradossi, i profili contrastanti si sprecano. Sulle prime pagine de “La Gazzetta”, allora diretta da Ivanoe Fossani, otto colonne strombazzano a tutto tondo la mirabile conquista dell’Etiopia. Appena cinque pagine dopo, Carlo Cassola pigramente accenna a <<una giornata come tante altre>>, involta nelle maglie di angoscia e sofferenza di una guerra dalla fine incerta. Fulchignoni tenta un aggiustamento del tiro mettendo in scena Thornton Wilder, scrittore statunitense noto per i suoi stentorei paragoni tra Mussolini e il grande Caesar, ma poi è sempre lui a tradurre per l’”Americana”, l’antologia curata da Vittorini a partire dal ’41 e censurata dal regime per il suo malsano interesse nei confronti della letteratura statunitense, rea di incarnare il fulgido ideale della libertà vera in contrasto con quella fittizia e condizionata del regime. Si ingrossa, anche a Messina, un’interessante vena futurista che sembra poter calcare il passo di Filippo Tommaso Marinetti, ispiratore nazionale della corrente e noto sostenitore del fascio, ma poi è lo stesso Guglielmo Jannelli, animatore del futurismo nella nostra città, a cercare la rottura con il filone nazionale, rendendosi autore del lungimirante pamphlet “Crisi del fascismo in Sicilia”. In realtà poca coerenza può aversi all’esterno della potente macchina del regime quando anche all’interno di essa le discrasie sono evidenti. Che il giornale “Pensiero dei Giovani” si qualificasse come strumento di modifica del fascismo “dall’interno” è circostanza assai nota, lo è forse meno il fatto che la sua origine possa essere ricondotta a un cognome che pesa parecchio nella politica del tempo, “Mussolini”, niente meno che l’amato primogenito del duce. Una delle tante antinomie che confondono e che fanno dubitare: Messina è certa di poter fare della letteratura una lama affilata per vincere i legacci dell’oppressore politico e così il giornalista Mario La Rosa non esita a indirizzare a Ruggero Zangrande, curatore principale del “Pensiero dei Giovani” e grande amico dello stesso Vittorio, una lettera di rottura che aspramente esprime il rifiuto ad aver <<le spalle coperte>> dalla presenza del figlio del duce all’interno della struttura editoriale. E poi ci sono Quasimodo e gli ermetici dell’asse bidirezionale Messina – Firenze, dediti a una <<letteratura di evasione che doveva essere pretesto per esercitazione d’arte pura e vacanza sul piano morale>> – affermerà poi il saggista e letterario Carlo Bo – ma che invece era <<in senso paradossale una misura di pulizia interiore verso la fiera che si stava svolgendo fuori>>. E d’altronde gli ermetici non sono nuovi all’accusa di una becera e aberrante indifferenza agli scossoni politici e ideologici del tempo: sono avulsi – si dice – dal concreto fluire degli avvenimenti dell’epoca, si arroccano solitari nelle irraggiungibili steli della loro cultura dotta e un po’ incomprensibile, sono tacciati di assenza dallo scenario reale, di misantropo allontanamento dai problemi morali in genere. Sono, in realtà, solo un’altra espressione, di certo meno evidente, del distacco dal governo ufficiale, che va man mano accentuandosi. Un altro volto dell’insofferenza crescente, del dissenso soffocato, di quel duro rancore che magistralmente sarà un altro messinese di nascita, Beniamino Joppolo, a mettere profeticamente nero su bianco, in uno dei suoi polemici scritti indirizzato a Mussolini, tuonando: <<Presto ti accorgerai del coraggio del vero popolo italiano!>>.
(Sara Faraci)