In Italia spesso la storia sembra ripetersi. Nella confutazione perpetua della teoria dei “corsi e ricorsi” di Gianbattista Vico, non impariamo mai dal passato. Quello che stiamo vivendo oggi appare come un revival dei primi anni Novanta.
Lo hanno fatto notare in molti qualche mese fa, quando le elezioni politiche avevano dato come esito un mostro a tre teste (Pd, Pdl e Movimento 5 Stelle) ma non una maggioranza stabile; l’economia continuava a precipitare e l’instabilità politico-economica la faceva da padrona.
Proprio come nei primi anni Novanta: le inchieste giudiziarie che avevano scoperchiato scandali in diverse Regioni solo l’anno scorso richiamavano “Mani pulite”, l’inchiesta del Pool di Milano che nel 1992 ha portato alla luce un sistema di tangenti collaudato.
C’erano proprio tutti gli ingredienti per temere il peggio: che il mix di instabilità politica ed economica, unito all’azione della magistratura (allora diventavano definitive le pene inflitte con il maxi processo istruito da Giovanni Falcone alla fine degli anni ’80, oggi con il processo sulla trattativa si mette in discussione il patto tra mafia e Stato) rompesse gli equilibri criminali. Il timore era di una nuova fase stragista di Cosa nostra per trovare nuovi referenti politici, dopo il crollo della vecchia classe dirigente del Paese.
Abbiamo chiesto a Vittorio Teresi, magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Palermo che oggi sostiene l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia insieme a Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia se siamo alla vigilia di una nuova fase stragista.
«Naturalmente spero proprio di no. Però mi preoccupa la sostanziale debolezza politica e l’attuale forza delle aderenze istituzionali che secondo me i grandi gruppi criminali – la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta – continuano ad avere. Vedo – come sempre, come anche allora – la determinazione con cui la magistratura e le forze dell’ordine cercano di contrastare tutto questo. Ma questa vicenda non è presente nell’agenda politica, e questo ovviamente mi preoccupa».
La lotta alle mafie, come più volte denunciato dai magistrati che se ne occupano, non è una priorità dei governi che si susseguono a Palazzo Chigi. C’è sempre qualcosa di più importante di cui occuparsi: la crisi economica, il lavoro che manca, le spese della politica da abbattere a furor di popolo. E poi c’è un dibattito, sempre aperto da oltre vent’anni, sulle riforme, con quella della giustizia in pole position. Ciò nonostante i tempi medi dei processi continuano ad allungarsi, molti fascicoli finiscono in prescrizione e il nostro Paese continua ad essere mangiato vivo dalle organizzazioni criminali.
«In troppi non credono che una giustizia più equa sia anche garanzia degli equilibri di potere – dice Teresi – nel senso che una giustizia efficiente probabilmente fa paura a tutte quelle sacche di illegalità che purtroppo sono presenti in Italia. Mi pare che non ci siano settori che sono esenti da grandi problemi di presenza di criminalità in modo preoccupante: dalla corruzione, ai fatti che riguardano la finanza e le banche, alla gestione degli enti pubblici delle Regioni, mi pare che ogni giorni ci siano notizie allarmanti in questo senso».
La lotta contro l’illegalità ad ogni livello è lasciata a magistrati e forze dell’ordine. «C’è una larga fascia di illegalità sempre più tollerata, come se fossimo anestetizzati di fronte a questi fenomeni». Per questo magistrati così dediti a combatterla sono stati definiti qualche anno fa “antropologicamente diversi”. Allora questo appellativo era un insulto, oggi Teresi ne capovolge il senso: «Se mi dice che sono antropologicamente diverso da chi tollera le sacche di illegalità sono contento di esserlo. Se il normotipo umano è quello che tollera l’illegalità preferisco essere fuori. La ricerca della verità è una necessità primaria delle democrazie. La lotta alla mafia in questi vent’anni si è evoluta sul piano della lotta alla mafia militare e al braccio armato ma non sotto il profilo delle connivenze istituzionali con la mafia. È il tradimento di quanto sostenevano Falcone e Borsellino».