Joan Quearalt è uno scrittore e giornalista spagnolo, attento studioso dei contesti e delle dinamiche mafiose, profondo conoscitore della letteratura italiana e siciliana ed in particolare dell’opera di Leonardo Sciascia.
Lo scrittore viene casualmente a conoscenza del caso di Attilio Manca, la storia del giovane urologo barcellonese trovato ucciso da una overdose di eroina e tranquillanti nella sua casa di Viterbo, città dove lavorava. Incuriosito dalle grossolane incongruenze che caratterizzano il caso giudiziario, J. Queralt viene in Sicilia e soggiorna per un lungo periodo a Barcellona Pozzo di Gotto, dove comincia la sua “esperienza di campo” che lo fa entrare in contatto con la realtà socio-culturale del contesto in cui i fatti si svolgono. Il risulato è un volume pubblicato in Spagna nel 2008, la cui distribuzione, sia nella versione spagnola sia in nella sua recente edizione italiana, ha subito reiterati tentativi di censura.
Mi accostai al libro anche stimolata dalla curiosità di trovarmi di fronte ad un libro tra quelli messi, per così dire, all’Indice. Via via che andavo avanti con la traduzione mi resi conto di trovarmi di fronte a un testo letterario maturo e complesso che alterna al racconto di cronaca riflessioni letterarie e che ha l’obiettivo narrativo di fare chiarezza su fatti e circostanze.
La ‘distanza’ dell’autore, ovvero quello che in letterartura si chiama“lo sguardo esterno”, è la prospettiva che ha consentito una visione lucida, chiara e sinottica del contesto sociale in cui le vicende si dipanano e ha messo in risalto fatti, abitudini e meccanismi a cui noi siciliani siamo ormai assuefatti. Il risultato è uno straordinario contributo alla conoscenza di un dramma individuale, familiare e collettivo.
L’autore, partendo dalla scrupolosa ricostruzione dei fatti compiuta sulla base degli atti giudiziari, mette in evidenza le tante incongruenze che caratterizzano l’iter giudiziario del caso di Attilio Manca e delinea una pista che conduce direttamente al boss mafioso Bernardo Provenzano. Al contempo, con una prospettiva dal basso verso l’alto, ricostruisce il quadro delle strutture sociali e descrive i modelli antropologici che caratterizzano il contesto barcellonese, messinese e siciliano in generale, fino a fare della Sicilia lo specchio dei mali di tutta l’Italia.
– Certo il quadro che ne viene fuori non è edificante “Un chiaroscuro violento e contraddittorio di rinuncia al futuro e di ambizione senza limiti: Un’avidità cannibale, inutile, chiusa” scrive l’autore.
Relativismo, pessimismo, menzogna e impostura sono i termini più ricorrenti e nelle sue considerazioni sulla realtà barcellonese non usa mezzi termini:“In posti come Barcellona, la mobilità sociale si ottiene facendo parte della complessa rete che compone il vertice sociale, motivo per cui si accettano i rischi, minimi, della contaminazione, scegliendo, senza ulteriori complicazioni, la propria sopravvivenza e la continuità del sistema. Davanti alla reale possibilità della discriminazione, la questione etica diventa irrilevante. Un tributo eccessivo”.
Più volte l’autore si sofferma sulla citazione di passi del “Il consiglio d’Egitto” di L. Sciasia e in particolare su quella straordinaria riflessione sulla storia siciliana e sulla sua menzogna che Sciascia fa dire all’avvocato Di Blasi “ogni società genera il tipo d’impostura che le si addice e la nostra società è di per sé un impostura, impostura giuridica, letteraria, umana” e invece è prorio la storia, continua Di Blasi/Sciascia che può riscattare l’uomo dalla menzogna e condurlo verso la verità. Queralt, riprende il concetto e scrive che è “solo la paura che articola le pratiche quotidiane e le scelte dei siciliani, quella profonda diffidenza verso quelle risposte che possono smantellare la capacità di ogni siciliano di vivere dimenticando”. Nel corso della narrazione queste riflessioni si rivelano strumentali a quello che è l’intento finale dell’autore: quello di scuotere le acque della palude.
Quello che ha me è parso molto interessante è, in primo luogo, la descrizione che l’autore fa dello spazio/luogo dove la vicenda si svolge come di “un campo di lotta”, dove lo scontro avviene tra il grande gruppo sociale e il gruppo sociale ristretto e dominante, che l’autore definisce il gruppo “degli amici degli amici” usando una locuzione tipica dei contesti mafiosi.
In secondo luogo l’aver isolato e sottolineato quello che rende il caso di Attilio Manca un caso emblematico di un contesto mafioso: il cosiddetto “meccanismo della negazione della vittima”. Quella sottile alchimia per la quale la vittima diviene un ‘poco di buono’ per la cerchia dei conoscenti. Questa definizione fu coniata da David Matza e Gresham Sykes nello studio sulla Teoria della delinquenza, dove viene analizzato un analogo meccanismo dei contesti criminali che viene attuato attraverso “tecniche di neutralizzazione” che si assumono il compito di risolvere le dissonanze cognitive e le incongruenze superando, “neutralizzando” appunto, i sensi di colpa del gruppo criminale e la morale di una società.
Avviene così che le norme interiorizzate di un gruppo sociale vengono in qualche modo attivate come guida per il comportamento del gruppo. In tal modo viene salvaguardata l’adesione al sistema di valori comuni a pertanto la sopravvivenza delle strutture di potere.
Come giustificare dunque di fronte all’opinione pubblica barcellonese la morte, avvenuta in circostanze non ancora chiarite, di un giovane e vitale medico con un futuro brillante davanti, che non aveva mai dato né segni di squilibrio né tantomeno ha manifestato istinti suicidari? La risposta è stata quella di inscenare un suicidio prima, per poi privare la vittima del suo spessore umano all’interno del suo contesto di appartenenza.
Tale meccanismo ha gioco facile tanto più se la vittima è assente; e la coscienza diminuita, nel sentire comune, dell’esistenza di una vittima è di per sé la spia che questo meccanismo è stato attivato.
Giustificazioni tipiche di tali dinamiche sono frasi comuni come “era solo uno straniero”, “era una prostituta”, “era un malvagio sfruttatore” nel nostro caso si è trovato lo slogan “Attilio era un drogato” e così con un mix di eroina e tranquillanti è stato ucciso o meglio è stato “suicidato” e quindi ucciso una seconda volta in seno all’opinione pubblica.
L’analisi sui sistemi di difesa e sulle tecniche di neutralizzazione potrebbe estendersi anche alle difficoltà che il libro ha incontrato nel corso del suo iter editoriale, sebbene il successo che il libro riscuote presso i lettori ne diminuisce certamente l’efficacia.
Relativismo, pessimismo, menzogna e impostura sono i termini più ricorrenti nel testo di Queralt e nelle sue considerazioni sulla realtà barcellonese non usa mezzi termini:“In posti come Barcellona, la mobilità sociale si ottiene facendo parte della complessa rete che compone il vertice sociale, motivo per cui si accettano i rischi, minimi, della contaminazione, scegliendo, senza ulteriori complicazioni, la propria sopravvivenza e la continuità del sistema. Davanti alla reale possibilità della discriminazione, la questione etica diventa irrilevante. Un tributo eccessivo”.
Più volte l’autore si sofferma sulla citazione di passi del “Il consiglio d’Egitto” di L. Sciasia e in particolare su quella straordinaria riflessione sulla storia siciliana e sulla sua menzogna che Sciascia fa dire all’avvocato Di Blasi “ogni società genera il tipo d’impostura che le si addice e la nostra società è di per sé un impostura, impostura giuridica, letteraria, umana” e invece è prorio la storia, continua Di Blasi/Sciascia che può riscattare l’uomo dalla menzogna e condurlo verso la verità. Queralt, riprende il concetto e scrive che è “solo la paura che articola le pratiche quotidiane e le scelte dei siciliani, quella profonda diffidenza verso quelle risposte che possono smantellare la capacità di ogni siciliano di vivere dimenticando”. Nel corso della narrazione queste riflessioni si rivelano strumentali a quello che è l’intento finale dell’autore: quello di scuotere le acque della palude.
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