Prosegue l’indagine del Carrettino delle idee sui giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata. Qui sotto Nuccio Anselmo, cronista della Gazzetta del Sud di Messina ed ex consigliere dell’Ordine dei giornalisti siciliano, parla di come sono cambiati i modi di intimidire i colleghi.
Sono otto i cronisti che hanno pagato con la vita le loro inchieste e le denunce. Oggi invece sempre più giornalisti vengono minacciati. Cosa significa fare informazione antimafia?
Il quadro siciliano è costellato da otto vittime, otto colleghi che sono morti, ed è il numero più alto in tutta Italia di colleghi che sono stati ammazzati barbaramente dalla mafia con delle modalità che per ognuno sono devastanti sul piano della sofferenza che hanno avuto. Partiamo dagli anni Sessanta con Cosimo Cristina, per arrivare a Beppe Alfano negli anni Novanta. La nostra categoria ha pagato un prezzo altissimo in questa lotta alla mafia con la morte di giornalisti che nel loro taccuino scrivevano cose importanti e, soprattutto, alcuni di loro anticipavano le evoluzioni mafiose che sarebbero accadute anni dopo. Penso ad esempio a Mario Francese, che capì la ferocia dei corleonesi molto prima di tanti altri, compresi magistrati e investigatori.
È possibile fare giornalismo antimafia da inviato oppure è necessaria una presenza costante sul territorio?
Questo è uno “scontro” che c’è da sempre. Magari quando arriva il grande inviato va a parlare con il cronista di paese e si informa con lui su quello che succede. Però il grande inviato deve cogliere gli elementi fondamentali e poi va via. Non vive il tessuto mafioso nella sua interezza, anche con le sue pressioni e i suoi condizionamenti. È molto più difficile fare il cronista rimanendo sul territorio. Ti può capitare di incontrare il mafioso al bar che ti vuole offrire il caffè, e tu devi rifiutare, perché quel caffè per il mafioso significa che ti ha comprato. Vivere il territorio significa trovarsi la mafia a due passi da casa, significa uscire la mattina da casa e pensare che la macchina, la moto o il motorino c’è, e meno male che c’è e non è stata bruciata, significa subire telefonate silenziose, ruote tagliate, lettere con proiettili, cioè tutta una serie di intimidazioni molto gravi e pesanti che indubbiamente incidono sul tuo lavoro. Di intimidazioni del genere in Sicilia ne succedono quotidianamente.
C’è un organismo molto interessante coordinato dal collega Alberto Spampinato che tiene il conto di tutte le intimidazioni che aggrediscono i giornalisti in tutto il Paese, e i numeri sono molto alti perché la nostra categoria, fortunatamente, accanto a personaggi che non fanno bene il loro lavoro ha dei personaggi che lo fanno molto bene, che denunciano tutto quello che succede e non hanno paura dei boss mafiosi.
Che faccia ha la mafia che hai conosciuto direttamente? Qual è l’identikit dell’intimidatore? Sempre bassa manovalanza o accade anche che un “colletto bianco” faccia pressioni?
Capita sia l’uno sia l’altro. Adesso ci sono dei sistemi legalizzati per fare pressioni e intimidazioni. Accanto alla minaccia tipica, per come la conosciamo, c’è anche tutta una serie di azioni legali che colletti bianchi, pubblici amministratori collusi con la mafia usano per intimidire il giornalista. Per esempio le querele, ma soprattutto le richieste di risarcimento danni in sede civile, che molto spesso sono esorbitanti – anche milioni di euro per un articolo – e mirano a colpire il giornalista, non fargli più scrivere determinate cose nel timore che per un lungo periodo penda sul capo del cronista una richiesta di risarcimento milionaria.
Ma in Sicilia è accaduto anche di peggio: in provincia di Trapani un avvocato all’interno di un processo ha avuto delle cose da dire nei confronti di un collega che aveva fatto solo il suo dovere, quindi siamo arrivati a un livello di intimidazione abbastanza alto, rispetto a quello che accadeva prima.
Cosa ne pensi del fatto che le inchieste non vengano pubblicate più sui giornali ma sui libri?
Non so se è un fenomeno positivo. Io, nelle cose che ho scritto, ho registrato questo fenomeno: nei giornali non c’è più spazio per parlare di mafia in un determinato modo e molti cronisti preferiscono accumulare tutte le informazioni, sviscerarle ed elaborarle all’interno di saggi o libri anziché sulle pagine di un giornale. Sui giornali non ci sono più le inchieste a puntate, perché sono diventati qualcosa di diverso rispetto a quello che erano negli anni Settata, Ottanta e in parte anche negli anni Novanta, trasformati anche dal fenomeno dei blog e dei siti internet. I giornali sono diventati dei fagocitatori di notizie usa e getta senza una visione d’insieme che ti consenta di analizzare il fenomeno mafioso in maniera seria.
E’ più protetto dalle minacce il giornalista che pubblica un libro o uno che fa un’inchiesta per un giornale?
Il giornalista che scrive di mafia non è protetto, se scrive le cose come stanno e dà fastidio. Anche il mafioso legge libri. Di sicuro chi fa bene il suo mestiere crea delle problematiche alle organizzazioni mafiose e quindi è un bersaglio da colpire.
Manca un investimento da parte dei giornali nel giornalismo d’inchiesta?
Io dico sempre ai giovani colleghi che la cosa più brutta nel nostro mestiere è l’autocensura. Non credo che ci siano editori che non vogliono che si scriva di determinati argomenti. Il cronista che si rispetti non ha freni inibitori, intanto scrive e poi si vede se quella cosa viene pubblicata e se provoca delle reazioni. Credo che molto dipenda dalla nostra categoria, ma ci sono – in Sicilia e fuori – dei bravi cronisti che continuano a occuparsi di mafia in modo serio.