C’è una sottile linea di demarcazione tra predatore e preda, tra aguzzino e vittima.
Ci sono casi di cronaca di cui si parla, su cui si legifera senza diritto alcuno, su cui si blatera emettendo sentenza.
Guardiamo tutto attraverso “lenti” costruite in secoli di pregiudizi, paradossi e storture mentali.
Eppure basterebbe usare una lente convergente per capovolgere la rappresentazione. Ma ci vuole impegno, ed una buona dose di coraggio.
Le baby prostitute. L’errore è tutto lì. In questo strano sposalizio di oggetto e complemento. Che non è una figura retorica come la metafora, ma un perverso gioco di parole.
Mi sono chiesta, dopo lo scalpore mediatico suscitato dal giro di prostituzione minorile stroncato a Roma, chi fossero le vittime principali. Arrivare ad una conclusione? No, meglio fermarsi ad alcune considerazioni.
La prima è che le ragazzine “che svuotavano la testa” durante gli incontri sono la rappresentazione vivente di quella negazione dell’infanzia e dell’adolescenza che psicologi, sociologi, educatori abbiamo combattuto per decenni.
“Non ero io, ma un’altra persona”, così racconterà una di loro agli inquirenti. Dovremmo chiederci quale degenere pratica di depersonalizzazione mettesse in atto un’adolescente dalla personalità ancora indecisa.
In Italia, dati alla mano, il fenomeno delle baby prostitute nel 2014 è aumentato del 440% rispetto all’anno precedente.
Viziate, soggiogate dai facili guadagni, ambiziose, spregiudicate, ma pur sempre ragazzine. Dalle indagini è emerso un mondo del quale si sa pochissimo. E di questo mondo siamo tutti costruttori, tutti corresponsabili. Ed anche loro, più di altri: i “papi”, uomini con famiglia, pancetta e portafogli gonfio ben consapevoli che le ragazze con cui facevano sesso erano minorenni. Quindi colpevoli. Davanti alla legge, davanti all’opinione pubblica, davanti alla coscienza collettiva. Eh si, perché le ragazze avrebbero dovuto, come le loro figlie, andare al mare, prendere un gelato, andare a ballare. Non passare ore con loro lusingate dal miraggio del denaro facile, del cellulare nuovo o nei casi più squallidi di una ricarica telefonica.
Perché una ragazzina di 14 anni non la si può definire prostituta ossia una donna che vende il suo corpo consapevolmente, ma solo una persona ancora in costruzione che fa un’ esperienza “a tempo”, un’ esperienza preterintenzionale, senza progetto, senza prospettiva.
Gli orchi senior, che mai si autodefinirebbero tali, sono il riflesso di quella debolezza morale che investe la società in cui viviamo, di quell’allentamento di tensione emotiva che spinge ad allungare una mano e prendere senza porsi domande ciò che piace, oggettificandolo, anche se oggetto non è.
Martha Nussbaum nel suo “Sex and Social Justice” sostiene che l’oggettificazione di un corpo si presenta con sette caratteristiche diverse. La strumentalità, il rinnegamento dell’autonomia, l’inerzia, la fungibilità, la violabilità, la proprietà da parte di terzi, il rinnegamento della soggettività dell’individuo.
La separazione del corpo dalla persona, un meccanismo perverso generato da una profonda confusione etica, a sua volta determinata dal decadimento delle istituzioni e dalla scomparsa degli adulti, del loro ruolo necessario, della rete di protezione che cautela, salvaguarda, redarguisce e se necessario, punisce.
E’ il frutto della “modernità liquida” per dirla con Barman, della liquefazione dei legami, in cui il consumo di tutto, incluso il sesso, perde la dimensione relazionale e diventa un atto individuale, con persone che non conosciamo, in cui non ci riconosciamo e che non conosceremo mai.
Angela Di Fazio –
Sociologa, Esperta in politiche sociali e progettazione sociale