“Belluscone – una storia siciliana” è un film di Franco Maresco, presentato e premiato nella sezione “Orizzonti” dell’ultima edizione della Mostra d’ Arte Cinematografica di Venezia. Il film- secondo molti il più bello dell’ultima Mostra Veneziana- è senza dubbio una delle opere più originali e potenti del cinema italiano degli ultimi tempi. L’idea iniziale di Maresco era quella di creare un docu-film d’inchiesta partendo da un dato oggettivo: la travolgente, impetuosa, ardente passione che il popolo di Brancaccio nutre nei confronti di Silvio Berlusconi.
Non abbiamo neanche il tempo di cominciare a vedere il film, che l’impresa del regista perde la rotta e inizia ad essere risucchiata in un vortice di materiale inutilizzato, di spezzoni scollegati, di sketch malriusciti fino a culminare nella scena in cui, in uno sperduto teatro, Marcello Dell’Utri emerge da una nebbia luciferina, seduto su una sedia di oro e porpora. Maresco lo interroga sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, sui finanziamenti illeciti, sulla “Trattativa”; e le risposte sono un ritornello di “Non è vero”, “E’ tutto falso”, finché, alla domanda: “Se Berlusconi un giorno dovesse rivelare tutto quello di cui è a conoscenza, cosa ne uscirebbe?”, Come per miracolo, Dell’Utri inizia a dire la verità. Inizia a parlare della morte di Mattei. E’ il colpo di scena, una rivelazione epocale e lì, sul più bello, come per intervento di forze oscure sovraumane, il microfono cessa di funzionare. E’ tutto vero. Come veri saranno gli improperi dello stesso Maresco contro i fonici, contro il destino che gli vede sfilare tra le mani un Dell’Utri che deve partire e non si può più trattenere.
Siamo in pieno “metacinema” quando in scena entra il noto critico Tatti Sanguineti che, come un investigatore noir, da Milano scende a Palermo per indagare sulle sorti di questo documentario e del suo autore. Franco Maresco è sparito, rinchiuso in una cupa depressione, inghiottito da un mondo che non riesce a interpretare, sepolto dalle mille difficoltà che si presentano sul cammino di chi tenta di compiere un’opera davvero impegnata nel panorama cinematografico italiano. Sanguineti scova lo sterminato materiale girato da Maresco, nascosto nello scantinato di un fotografo di periferia che si lamenta con lo stesso Sanguineti perché tutto quel “macello” gli ha fatto scambiare una cassetta su Berlusconi per un filmino di un matrimonio. Sanguineti può ricomporre così finalmente i pezzi e dar vita a un “Frankenstein” fatto d’immagini che prende coscienza e acquista magicamente un senso logico. E’ qui che il film ha davvero inizio.
Un film che si rivela un trattato di antropologia contemporanea, un documentario etnomusicologico che ci porta a fare un giro in quell’ottovolante dell’assurdo che è il mondo della musica neomelodica palermitana. Un percorso che Maresco intraprende per caso, attirato ed in seguito accompagnato da quel cicerone delle tenebre che risulterà essere il vero protagonista, la rivelazione: Ciccio Mira, settantenne palermitano, impresario dei “migliori” cantanti neomelodici e fervente sostenitore della mafia e di Berlusconi: “Perché siamo tutti e due uomini di spettacolo”. Franco Maresco lo riprende sempre in bianco e nero, come a volerne sottolineare l’umano grigiore, e gioca, come il gatto col topo, con le sue paure, le omissioni, quell’accartocciarsi su se stesso tra un detto e un non detto, tra mille giustificazioni, sviamenti e ammiccamenti. Attraverso Ciccio Mira entriamo in un mondo di acuti che sembrano lamenti, di bancarelle e archeggiati di luci, di finestre appiccicate una sull’altra come le celle di un enorme alveare, di odalische panciute che danzano sulle note del “bunghi bunghi”, circondate da uomini brutti come licantropi. Memorabile la scena in cui, su un palco “casualmente” montato di fronte alla casa del boss Lauricella, Maresco sussurra a Mira: “Possiamo parlare di mafia?” e con uno sguardo che ondeggia tra l’imbarazzo e il terrore Mira risponde: “Ma parliamo di cose belle… qui siamo in territorio caldissimo..poi quannu semu fora, io e tu, putemu parrari di chiddu chi voi”. Oppure la lite tra Nik, giovane compositore palermitano, autore del “mirabile” brano che sarà la colonna sonora del film: “Vorrei conoscere Berlusconi” e Maresco stesso, colpevole di averlo raggirato e aver distorto l’autentico messaggio della sua canzone dandole un significato satirico che va contro l’amato Silvio. Questo film, questa ballata leggera che parla di terribili atrocità e violenza con lo stile ironico, grottesco e irriverente tipico del suo autore, oltre a farci ridere molto – e amaramente- è un’illustrazione precisa e profonda su come la mafia utilizzi lo spettacolo come propaganda e come mezzo per autofinanziarsi.
Sui pizzini che gli idoli della folla leggono per portare i saluti “agli ospiti dello Stato”. Su come i clan trovino terreno fertile in mezzo al degrado, alla disperazione e all’abbruttimento umano che lo Stato sembra aver dimenticato e lasciato al proprio destino, se non – ahinoi- persino sfruttato. E qui Maresco trova il punto d’incontro, le assonanze, tra la realtà di Brancaccio e il fenomeno “Berlusconi”, su come le stesse “tecniche” si siamo allargate a macchia d’olio nel resto della nazione, fino a un Renzi che spunta in giubbotto di jeans sul palcoscenico di “Amici”. Un confine che stabilisca chi abbia più attinto da chi, chi abbia influenzato di più l’altro resta quasi impossibile da determinare e in uno dei più grandi finali senza speranza, il giovane compositore Nik passeggia per strada con una rosa in mano, vestito di tutto punto, accompagnato da una leggera pioggerellina, entra in un cimitero e posa dolcemente la rosa su una tomba dove compare la scritta a caratteri cubitali: “BONTADE STEFANO”, un uomo che ha contribuito in maniera decisiva alla nascita delle tv commerciali in Italia.
Noi spettatori stiamo per alzarci ed abbandonare la sala quando all’improvviso, dopo i titoli di coda, riappare il pallido faccione di Ciccio Mira che ci dice: “Non fate entrare la mafia in casa vostra”. Pausa. “Perché non è più quella di una volta”. Fine.
Stefano Cattafi