Beni immateriali: l’ultimo dei Gargano

La concezione di “bene” a cui facciamo riferimento più spesso è riferita quasi sempre alla sua sfera economica, tanto è ancora forte in noi il retaggio dell’era industriale. Identifichiamo come “bene” un oggetto materiale, concreto, individuabile in determinate caratteristiche; quello che in pochi sanno è che un “bene” non è necessariamente qualcosa di tangibile, e non stiamo parlando dei servizi. Quello a cui vogliamo fare riferimento oggi è un bene intangibile. Definizione ancora vaga, dirà qualcuno, ed effettivamente è giusto approfondire ancora il concetto, in quanto esso si divide principalmente in due rami. Da un lato, c’è un bene intangibile inteso come vero e proprio prodotto economico, in quanto un simile bene produce un guadagno; un brano musicale acquistato su internet, una foto, un film, un articolo, e qualsiasi altra forma di prodotto in forma digitale che è impossibile toccare con mano si prefigura come bene intangibile. Dall’altro lato c’è il bene immateriale, che a prima vista potrebbe sembrare un mero sinonimo del primo concetto, ma che in realtà nasconde una valenza e un significato nettamente più profondi, staccati dalla sfera economica che fino a questo momento ha dominato le nostre dissertazioni.

 Un bene immateriale è l’insieme delle conoscenze, della cultura di una persona o di una tradizione, e non produce direttamente un guadagno poiché il suo valore non è facilmente valutabile o individuabile. Negli ultimi anni l’UNESCO si è preoccupata di tutelare queste forme particolari di beni, istituendo la convenzione per salvaguardia dell’eredità culturale intangibile (Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, nota anche solo con il l’acronimo ICH), che si è preoccupata di tutelare in tutto il globo i beni immateriali in ogni loro forma, sia che si trattasse di particolari tradizioni, sia che fossero vere e proprie persone, uniche depositarie di un particolare tipo di cultura e conoscenza. Con il meeting di Marzo 2001 a Torino, in cui furono poste le basi per la convenzione, l’Italia divenne uno dei paesi promotori; sempre nello stesso anno, in Sicilia venne riconosciuto come bene immateriale l’Opera dei Pupi, una delle prime tradizioni in assoluto ad esser divenuta oggetto della tutela dell’UNESCO. Questa mossa ha permesso di dare “una mano” ai pupi, per permettergli di sopravvivere e di riprendersi dopo un periodo di forti difficoltà, che aveva comportato la sparizione di antiche famiglie pupare e dei loro teatri. Davvero un bel gesto d’amore internazionale verso la nostra terra, sempre ignorata dai governi nazionali. In teoria, quindi, ci sarebbe da stare tranquilli. La realtà purtroppo è ben diversa: “è già un’impresa riuscire ad occuparsi dei beni culturali materiali già riconosciuti, figurarsi di quelli intangibili e di complessa valutazione”. Questa è l’osservazione di Franz Riccobono, un’autorità nel campo dei beni culturali qui a Messina, che continua dicendo: “la legge prescrive la tutela di questi beni, tuttavia la messa in pratica presenta notevoli complessità e intoppi burocratici. Altre grosse difficoltà derivano dalla mancanza di strumenti di valutazione adatti a testare il possesso di questi valori, che restano comunque ostici da catalogare quand’anche esistano le possibilità di rilevare la loro presenza. Un altro problema che va sollevato è la scarsa, atavica, capacità dimostrata dalle autorità nel prendersi cura dei beni culturali materiali tradizionali, che lascia ben poche speranze al destino dei beni immateriali”.

 

Per avere un quadro ancora più chiaro della situazione dei beni immateriali a Messina, abbiamo interpellato anche il neo eletto presidente dell’ente teatro Luciano Ordile, da sempre impegnato per la salvaguardia dei beni etnoantropologici: La Sicilia è stata una grande antesignana nel riconoscimento e nella tutela dei beni immateriali: ne è una dimostrazione la legge 116 del 1977. E nel resto d’Italia non esisteva nessuna altra legge che si occupasse in questo modo dei beni qui trattati. Una delle prime tradizioni vincolate come bene etnoantropologico dalla regione Sicilia è stata la Vara di Messina; l’insieme di elementi (materiali e non) che la compongono costituiscono un perfetto esempio di bene immateriale. Cosa c’è di più tradizionale per i messinesi della processione della Vara? Una simile manifestazione di cultura popolare potrebbe andare persa, un giorno, ma non se è stata vincolata dalla regione come bene etnoantropologico. È la riscossa del popolo, di tutti quei costumi e usi che un tempo ci avrebbero fatto vergognare, e che ora vivono la loro rivincita nell’affermare la nostra identità di siciliani”

 

E per quanto riguarda i pupi e i pupari? “Il puparo per tutelarsi può sfruttare la legge sull’artigianato; in questo modo potrebbe essere riconosciuto, avendo magari anche dei “ragazzi di bottega” che possano imparare il mestiere e far crescere la sua fama. Un’idea potrebbe anche essere quella di donare al Comune i pupi, a condizione che vengano esposti e mantenuti: se non dovessero essere rispettati tali accordi, il puparo è comunque in condizione di poter riprendere in ogni momento le sue creazioni. Potrebbe anche venderli al Comune stesso, ma devono essere pupi di una certa età (almeno 50 anni di vita) e devono essere vincolati dalla sovrintendenza ai beni culturali”. E non c’è qualche idea che possa tentare di rilanciare l’Opera dei Pupi in città, per permettere ai pupari di potersi esibire anche in occasioni diverse dagli spettacolini per le scuole? “Tempo fa si era pensato di legare ai pacchetti dei tour operator delle crociere una serie di spettacoli e mostre sui pupi, per offrire un’attrattiva in più ai turisti e al contempo di permettere all’Opera dei Pupi di estendere i suoi confini al di fuori della Sicilia. Legare questi spettacoli all’arrivo delle navi potrebbe essere una buona idea per dare ai turisti la possibilità di tornare a casa con qualcosa di concreto della nostra tradizione, e ai pupari di esibirsi e di poter contare su una fonte di guadagno relativamente stabile. L’idea è solo abbozzata, ma non è assurdo poter pensare di vederla messa in atto un giorno”.

 

Ma di tutto questo, i pupari cosa ne pensano? Fino ad ora ci siamo preoccupati di ascoltare testimoni sì a conoscenza dei fatti, ma comunque estranei dal mondo del pupo in senso ristretto: è giusto ora passare la parola a chi in questo campo ci vive. “Il bene immateriale ha fatto più male che bene al pupo: questo riconoscimento ha permesso a molti di entrare in questo settore, senza avere la benché minima esperienza o tradizione, o peggio ancora, passione. L’allargamento di quella che una volta era un’elite ha presto fatto decadere il valore di quest’arte e dell’appellativo “puparo”, che è diventato alla portata di tutti; da qui nasce un altro problema da non sottovalutare, che è la mancata attenzione riservata ai veri pupari. Si è voluto fare “bene immateriale” l’Opera e il pupo (che immateriale non è), ma non il loro creatore, che in se conserva l’esperienza e la storia di questa attività”. Questa è l’opinione di Venerando Gargano, storico “puparo” di Messina con alle spalle la tradizione plurisecolare della sua famiglia. La battaglia che porta avanti ogni giorno, con dedizione e sacrificio, è un peso di cui si grava volentieri e che è diventato per lui un obbligo morale, un impegno verso le sue creature; quei cavalieri tanto forti nelle loro armi e armature scintillanti, quanto deboli e indifesi contro l’avanzare della storia e i soprusi del tempo. Quello che Venerando chiede è una presa di coscienza delle istituzioni regionali dell’importanza di questa tradizione che ha scritto la storia della Sicilia; chiede che qualcuno, un giorno, possa conservare intatti i personaggi, le storie, le vite dei pupi e dei pupari, senza lasciare questo enorme patrimoni alla mercè degli approfittatori e all’oblio dei secoli. Finchè si continuerà a fare del pupo e del puparo un semplice “business”, un settore senza anima e storia in cui a nessuno sembra importare della cultura, in cui vige la regola della domanda e dell’offerta, allora non ci sarà alcun futuro per l’arte del pupo. E per combattere questo oscuro futuro vogliamo qui raccontare, nei limiti che il tempo e lo spazio ci impongono, la storia della famiglia Gargano, sicuri che la nostra fiducia nell’affidare a voi lettori l’importante compito di conservarne la memoria sarà ben riposta. Non esiste la Storia senza qualcuno che la possa ricordare.

 

Il nostro racconto inizia nel 1830 circa nella zona di Acireale, con l’omonimo trisavolo di Gargano, ricco possidente di nobile stirpe; dalla sua ha un grande patrimonio e una grande attività, una fabbrica di sedie, che gli permettono di vivere senza pensieri. Ma Venerando è inquieto; la vita che conduce non lo soddisfa, i rigidi paletti imposti dall’etichetta di nobile lo asfissiano, e un pensiero sempre più pressante lo opprime. Trovare un senso alla sua vita. Nel frattempo, in questo particolare periodo storico, scoppia il boom dei pupi in Sicilia, e Venerando scopre un’inaspettata passione per questi oggetti; il modo in cui entra in contatto con questi è però molto curioso. La notte, in gran segreto, il nobile Gargano andava a giocare a carte nelle taverne, mischiandosi al popolo, interagendo con esso senza doversi attenere alle rigide norme comportamentali della sua casta, senza ipocrisie; era un rapporto genuino quello con la gente, ed era proprio quello che il cavalier Gargano aveva di bisogno. La ricchezza, la sofisticatezza della vita da nobile bandivano la normalità, e una simile vita finiva con il nuocere ad una persona curiosa e vitale com’era lui. Una sera, Venerando vince a carte una coppia di pupi che porta nella sua fabbrica; iniziando a studiarne i dettagli, la costruzione, i materiali, Gargano finisce con l’appassionarsi a questi oggetti e, conoscendo bene le tecniche di lavorazione del legno, tenta piano piano di realizzare da sé alcuni prototipi. L’attività che svolge è però clandestina, poiché questa sua passione non si addice al rango della sua famiglia in quanto “troppo popolare”; la moglie, i parenti, sono all’oscuro di tutto, e di certo non approverebbero che il nobile Venerando passi il suo tempo con i “plebei” e dilettandosi con delle “rozze marionette”!

 

Avendo assimilato i rudimenti della costruzione del pupo, l’aristocratico trisavolo trasforma la sua fabbrica in un teatrino improvvisato in cui si esibisce in alcuni spettacolini riservati solo ai suoi dipendenti, che sembrano apprezzare la divertente idea. Più passa il tempo, più il cavalier Gargano acquista nuove nozioni e tecniche, grazie anche al rapporto intrecciato con due grandi famiglie pupare dell’epoca, i Grasso e i Macrì. Ma come in ogni favola che si rispetti, arriva il momento in cui l’equilibrio e l’idillio iniziale vengono spezzati: la famiglia scopre la “disonorevole” attività di Venerando, e lo mette di fronte ad una dura scelta. O lascia perdere i pupi, o verrà rinnegato. La posta in gioco è troppo alta, e il cavaliere non ha altra scelta che mettere da parte la sua passione. L’intera vicenda però non passa inosservata al figlio Rosario che, in barba alle minacce della famiglia, inizia a dedicare il suo tempo al “passatempo” del padre, trasformandolo in una vera e propria attività. A soli 17 anni scrive il Bellisario da Messana (ovvero Messina), grande saga di quasi 100 storie in cui vengono narrate le gesta di questo eroe messinese, che difende la città dall’invasione dei Turchi grazie anche agli interventi della Madonna della Lettera; il successo di questa opera è strepitoso e segna una decisa rottura con le narrazioni del passato, quasi interamente incentrate solo sui paladini di Francia. Rosario affina le sue abilità nella costruzione dei pupi e intraprende un fitto scambio culturale con le altre famiglie pupare dell’area. La sua istruzione gli permette di trasportare su carta le storie fino a quel tempo tramandate solo oralmente, a causa del diffuso analfabetismo della Sicilia del tempo; in più, è bene precisare che l’Opera dei Pupi era prettamente un tipo di intrattenimento basato solo sulla narrazione orale in vernacolo, in modo da essere facilmente compresa dal popolo, incapace di leggere, scrivere e anche capire l’italiano. Questa attività non è ben vista dalla famiglia, da sempre schierata contro i “disonorevoli” pupi, ma, diversamente da quanto successo in precedenza, non pone a Rosario alcun ostacolo; la pace, però, è destinata a non durare a lungo. L’amore tra Rosario e la figlia di Angelo Musco, Maria, è la goccia che fa traboccare il vaso: anche il “giovane” Gargano, come il padre, viene messo di fronte ad una scelta difficile. Lasciare la donna e abbandonare la vita da puparo errante. Rosario non cede al ricatto della famiglia, e viene diseredato.

 

Da qui inizia un nuovo capitolo della storia dei Gargano e dei loro pupi, che da questo momento in poi inizieranno un lungo viaggio attraverso la province di Catania e Messina, portando i loro spettacoli in quasi tutte le piazze delle città e dei paesi dell’area. La fama dei Gargano cresce a tal punto da richiamare l’interesse di un altro grande puparo, il messinese Ninì Calabrese, che lo invita a raggiungerlo nel suo “Teatro Nuovo” proprio nella città dello stretto, nel 1912, a 4 anni dalla terribile catastrofe che la rase al suolo. Il sodalizio è lungo e proficuo, e porta alla realizzazione di una nuova misura “standard” per i pupi messinesi, così come era stato fatto in passato per le misure dei pupi di Palermo o di Catania poiché ogni zona della Sicilia aveva la sua “razza” di pupi particolare, con lunghezze tutte proprie; a Messina, da circa un metro e dieci si passa ad un metro e trenta, lunghezza che resterà per sempre tipica del pupo Gargano nella nostra città, se pure con delle particolari variazioni di cui parleremo più avanti. Un’altra grande innovazione tecnica è la cromatura dell’ottone delle armature, procedimento raro e costoso che però diede tutt’altro splendore (è il caso di dirlo!) ai cavalieri, che si trasformavano così in veri e propri gioielli di artigianato. I loro spettacoli hanno così tanto successo che, otto anni più tardi, Rosario e suo figlio Venerando riescono ad aprire un teatro stabile tutto loro in zona Camaro. L’attività procede spedita, ed è un susseguirsi di successi finché, nel 1935, Don Rosario muore; i pupi passano in mano al figlio, che continua sulla scia dei successi del padre, arrivando ad inaugurare un secondo teatro a Messina, in via Santa Marta. L’arena Gargano. È un periodo splendido per la famiglia Gargano, che arriva ad intrattenere migliaia di persone durante gli spettacoli estivi, nel famoso “Ferragosto Messinese”; si parla di numeri da vera e propria rockstar, con circa 24.000 presenze sotto il palco allestito davanti al municipio per tutto il mese di Agosto. Venerando è quasi un “divo”, un grande artista con una voce così potente da poter essere udita dall’Irrera a Mare fino alle navi caronte che attraversavano in quel momento lo Stretto, con un “esercito” di pupi che animava i suoi spettacoli; non parliamo poi dei fondali dipinti, che permettevano di mettere in scene i più disparati contesti, rivaleggiando quasi con i set cinematografici!

 

Come abbiamo visto fino a questo punto del racconto di questa famiglia, la loro vita è stata sempre costellata da una serie di “alti” e “bassi”; nel 1964 la storia fa una brusca virata, facendo toccare il fondo a questa nobile stirpe di pupari. Il teatro Gargano di Giostra prende fuoco, e un centinaio di cavalieri “muoiono” nel rogo della loro fortezza, insieme a manoscritti, fondali e strumenti. Ricominciare è difficile. Negli ultimi anni i messinesi perdono interessere verso i pupi, grazie anche all’avvento della televisione e del cinema, e l’età avanzata di Venerando gli impedisce di potersi dedicare a tempo pieno alla sua attività. Il materiale scampato alla furia delle fiamme viene allora preso in mano dal figlio Rosario, anch’esso mosso da un profondo amore verso i pupi, tentando con ogni mezzo di portarne avanti la tradizione, barcamenandosi tra mille difficoltà. È un periodo molto difficile, in cui ai pupi non viene riconosciuta più importanza, e la protezione della loro storia è tutta sulle spalle di chi, come Rosario, ha a cuore il loro destino. Segno dei tempi che cambiano è anche la rinnovata necessità del puparo di doversi spostare di città in città per portare i suoi spettacoli, proprio come faceva suo nonno Rosario lungo tutte le piazze delle province di Catania e Messina; è la fine del teatro stabile. Questa necessità porta ad un’ennesima rivoluzione tecnica per la nuova generazione dei pupi Gargano: le dimensioni dei cavalieri vengono dimezzate, passando da un metro e trenta ad appena sessantacinque centimetri. I pupi così realizzati sono più semplici da trasportare e da muovere, permettendo mosse più spettacolari e movenze più naturali. Ma Rosario non può vivere solo di questa attività, che gli porta appena pochi spiccioli, e si trova costretto a dover lavorare come meccanico per poter mantenere la sua famiglia. Nonostante le difficoltà, Gargano e i suoi pupi continuano a “mietere” successi e riconoscimenti, come nel 1980 a Messina dove ottiene il primo posto al torneo dei pupi siciliani nel teatro in fiera. Nel 2000 Rosario muore, e il figlio Venerando ne raccoglie l’eredità. Il nostro reportage termina qui, dopo questa lunga dissertazione storica; prima di concludere, però, è bene capire cosa significhi oggi essere un puparo, e nessuno meglio di mastro Venerando può illuminarci sull’argomento.

 

“Inizialmente la mia attività di puparo coesisteva insieme al mio vero lavoro, che mi permetteva di vivere dignitosamente e senza pensieri: nella mia mente però c’era una preoccupazione, che riguardava il destino della secolare tradizione della nostra famiglia e dei pupi costruiti da mio padre e dai miei avi. Come il mio trisavolo Venerando, anche io sentivo di dover dare un senso alla mia vita, e iniziai a valutare seriamente la possibilità di dedicarmi totalmente all’Opera dei Pupi. Le iniziative fatte per commemorare la morte di mio padre mi diedero la spinta necessaria per prendere questa decisione, non facile ma doverosa. Innanzitutto era molto difficile poter coniugare le due attività, e i pupi richiedono un’attenzione molto particolare per la buona riuscita di uno spettacolo; il puparo mette insieme tante esperienze. Si va dalle competenze da falegname per la lavorazione del corpo all’abilità del fabbro per la realizzazione delle armature, passando per il sarto e per il pittore per quanto riguarda i costumi e la pittura del pupo. Un altro aspetto da non trascurare è poi il confronto con i miei avi. Rispetto a loro mi pongo nella condizione di dover semplicemente conservare questa storia, poiché non credo di avere le stesse capacità di chi mi ha preceduto. È la paura di non essere all’altezza, che fa i conti anche con i sacrifici e le difficoltà nel mantenere viva questa tradizione, specie qui a Messina. Nella nostra città manca una cultura che si ponga il problema di conservare le sue radici, e tale problema si riflette nello scarso interesse che c’è verso il pupo e le sue storie; questo porta anche ad una diffusa incapacità nel saper distinguere uno spettacolino fatto solo per soldi dallo spettacolo di un mastro che allestisce vere opere d’arte, che non sono soltanto i pupi in sé ma anche le storie che vengono messe in scena, le quali non hanno nulla da invidiare ai grandi poemi della narrativa. Questi spettacolini poi, comportano un generale appiattimento verso il basso della qualità e del lustro della categoria dei veri pupari, che per poter contrastare i “prodotti” di questi dilettanti  si trovano nella condizione di dover offrire spettacoli a prezzi notevolmente più bassi del loro reale valore, fattore che incide spesso nella qualità delle rappresentazioni. Tutti questi fattori vanno poi moltiplicati per il disinteresse e l’inadeguatezza delle autorità, che rendono quasi insostenibile questa situazione. Vorrei che le istituzioni dessero più importanza all’Opera dei Pupi, che nelle sue storie e nella sua arte conserva secoli e secoli di storia e cultura siciliana; questo interesse, però, continua ad essere latitante. Ma io vado avanti. Per me i pupi sono una forza invisibile, proprio come i miei figli: ti permettono di affrontare ogni difficoltà con il vigore necessario, e l’amore che ho per loro mi dà l’energia per smuovere le montagne. La mia è una lotta, una missione, per far sopravvivere questa tradizione. È il senso della mia vita.”