“Incontro” Alberto una domenica mattina, potenza dei mezzi informatici. Quello che segue è il racconto di un pezzo della nostra storia che rivive attraverso gli occhi, la musica, le parole e i ricordi di Alberto Bertoli. Alberto non è solo un grande artista: è, soprattutto, un grande uomo che ha saputo raccogliere e donarci con semplicità, con la cifra stilistica tipica del suo tempo, il messaggio di Pierangelo. Da lui ha ereditato senz’altro la sensibilità. Forse non saranno d’accordo né padre, né figlio; ma mi piace pensare a una mano invisibile e generosa in grado di intercettare i germogli che Pierangelo ha seminato nel corso della sua vita umana, prima ancora che artistica. Poi questi germogli si sono trasformati in frutti. A beneficio di tutti. Perchè la memoria è testimonianza, è esercizio nella quotidianità. Solo così arrivano fino a noi, e anche oltre la mente, il cuore e il valore di un uomo.
Nella tua biografia usi un termine desueto come “complesso” anziché band per indicare il gruppo con cui hai esordito. Una scelta d’altri tempi: come mai?
Sicuramente “band” richiama a un linguaggio filo-americano che fa maggior presa, per tanti è più “figo” dire band anziché complesso. Ma poi molti, ancora oggi, non capiscono l’inglese. Certo se uno scrive un testo in inglese suona meglio, musicalmente funziona di più. Ma scrivere in una lingua come l’italiano, che è molto musicale e che ha tante vocali dentro, è artisticamente più difficile. La sfida sta tutta lì: trovare la melodia dentro una lingua come la nostra che è già essa stessa melodia.
Tornando all’uso della lingua, bisognerebbe avere il coraggio anche, di farsi capire da tutti. Anni fa per esempio, quando ero piccolino e viaggiavo con i miei, mio padre prendeva in mano la cartina geografica e individuava il paese in cui la sera avrebbero suonato. “Ecco, dobbiamo andare lì”, diceva. Così, semplicemente. Adesso si cerca la “location” per il concerto. Una volta bastava semplicemente cercare la piazza del paese!
Nelle tue canzoni c’è una fusione perfetta fra rock e melodico italiano. Quali sono stati i tuoi modelli?
Ne ho avuto diversi. Il primo, ovviamente, è mio padre. Lui lavorava molto in casa; si chiudeva nel suo studio, lavorava lì ai suoi testi, col suo stereo acceso. La mia camera confinava con la sua e così, mentre studiavo, sentivo sempre cosa faceva. E’ naturale quindi che la prima influenza l’abbia subita da lui, è da lui che ho imparato. Mio padre poi è quello che ha scoperto Ligabue e io l’ho avuto per casa per cinque o sei anni. Si confrontavano su come cantare, sui testi. Ricordo che le canzoni del primo disco le scelsero assieme. Vasco poi ha colonizzato la mia gioventù. Dai 15-16 anni l’ho ascoltato a tutto spiano. Penso che, come per tanti, la sua musica abbia incarnato la ribellione. Poi in casa capitava di frequente di assistere a disquisizioni sui cantautori, i loro testi, da dove traevano ispirazione. Sono cresciuto in questo clima, insomma.
Il tuo brano “Come un uomo” e il video che lo accompagna sono molto significativi, densi di lirismo musicale e visivo. Ne parliamo?
Intanto ci tengo a dire subito che il video è stato girato da Corrado Ravazzini che secondo me non ha avuto ancora i giusti riconoscimenti che, invece, meriterebbe. Lui è un grande regista.
Qual è la storia di questo pezzo?
Io credo di abitare in un posto molto particolare (l’Emilia n.d.r.). Nell’immediatezza del terremoto mi colpì la grossa solidarietà che si sviluppò qui attorno. Mi è capitato personalmente di stare venti minuti in fila davanti ai centri di raccolta, insieme a tanta gente, per consegnare quello che poteva servire in quelle fasi drammatiche. E’ stata uno dimostrazione straordinaria di generosità, di spirito di comunità.
Poi la storia che si narra dentro quel video è un fatto reale, la storia di quest’uomo.
Un giorno mi telefona un uomo, Fabio Castellini che non conoscevo, e mi dice: “ascolta io ho fatto una chitarra, te la vorrei far vedere”. Al telefono non mi ha spiegato molto; poi è arrivato qui, mi ha fatto vedere la chitarra e mi ha detto: “l’ho fatta con la trave di una casa venuta giù col terremoto, se te la porti in tour la possiamo vendere e col ricavato aiutare questa associazione che si occupa della ricostruzione, possiamo aiutare la gente che ha bisogno”. Anche dalle tragedie si può trarre spunto per tornare alla vita. Appena è uscito da casa mia ho subito pensato che volevo e dovevo scrivere una canzone. Insomma ho sentito che dovevo fare un’operazione stilistica diversa, abbassare i toni in qualche modo e puntare di più sulle parole, oltre che sulla musica. E’ così che è nato il video di “Come un uomo”. Poi, come qualunque idea, è monca se dietro non c’è il supporto di uno staff all’altezza. Ed è qui che entra in campo la bravura del montaggio; la sua poetica sta tutta lì e questo è stato il grado merito di Ravazzini.
Non parlare di tuo padre è impossibile. Ti sei mai sentito schiacciato dalla sua figura?
Questo significherebbe essere in competizione con lui e, a parte gli scontri generazionali, io ho vissuto molto in simbiosi con lui. Fra i miei fratelli sono forse quello che ha avvertito di più la sua perdita.
Mio padre ha scritto canzoni che in pochi hanno saputo scrivere. Ed è stato anche molto sottovalutato. Io non mi sento schiacciato, sento ammirazione per lui, anche se abbiamo avuto percorsi diversi.
So che molti faranno paragoni, diranno: “ma non è suo padre!” Tutto questo è nelle cose, il confronto è normale. Poi il diritto di critica ci sta tutto!
Ti è mai pesato l’handicap di tuo padre?
Mio padre non era solo handicappato, era anche famoso. Aveva quindi due handicap! Io e la mia famiglia non eravamo “normali” in niente! Dipende anche da come ti fanno vivere la “diversità”: in casa mia era considerata una ricchezza. Mio padre poi era anche molto crudo. Spesso diceva che i suoi testi erano diversi perchè lui aveva un punto di vista differente: e infatti scriveva all’altezza del culo!
Poi ricordo certe situazioni, in giro per i paesi in cui avrebbe poi suonato. Ci guardavano tutti. Un po’ perchè la carrozzina elettrica faceva un gran casino, un po’ perchè era Pierangelo Bertoli. Una volta ricordo che gli chiesi: “ma papà, perchè ci guardano tutti?” – “perchè siamo belli” fu la sua risposta. Lui non era mai a disagio, erano gli altri a esserlo. Per rispondere alla tua domanda: io il suo handicap l’ho sempre vissuto bene!
Gli chiedi mai consiglio?
Se parli di spiritualità ti dico che no. Non sono credente né battezzato, non credo in un aldilà. Certo, a volte mi capita di pensare cosa penserebbe di quello che faccio e mi piacerebbe rincontrarlo in un ipotetico paradiso.
Guardi mai i talent?
Beh, sicuramente è tutto molto svilente. Sentire solo un minuto di un cantante non è mai esaustivo delle sue capacità. La carriera di un artista è fatto di tanto: di successi, ma anche di insuccessi che servono a costruirne l’identità e lo spessore. Poi ci sono alcuni che sono venuti fuori dai talent, come Emma Marrone o Noemi. Sono due grandi artiste che sono passate da lì, ma che hanno una loro identità ben definita, una loro spiccata sensibilità umana che si riversa inevitabilmente su quello fanno. Esser famosi poi non significa necessariamente essere grandi artisti.
I testi di tuo padre hanno avuto spesso una connotazione sociale. Quanta importanza e incidenza ha questo aspetto nei tuoi testi?
La musica è socialità, ed è presente soprattutto quando la comunità si riunisce. E forse questa è un’eredità di mio padre, degli anni ’70, anni che io ho vissuto attraverso di lui. L’importante è farlo sempre col metro giusto. Adesso sarebbe anacronistico se nei miei testi parlassi degli operai. Oggi forse sarebbe più rispondente parlare degli impiegati o dei precari. Già Fantozzi, se ci pensi era un impiegato, non un operaio.
Che programmi artistici hai?
Beh, intanto il 28 gennaio esce il cd “Bertoli” prodotto da Beppe Carletti e Massimo Vecchi dei Nomadi. Poi mi piace suonare dal vivo e suonare col mio gruppo nelle piazze. Anche se a volte il confronto è difficile. Lo scorso anno abbiamo chiuso con 43 concerti, più quelli per la beneficenza, a cui lascio sempre molto spazio. Perchè se ciascuno facesse la propria parte staremmo tutti meglio senza devastarci; e per farlo non serve essere dei missionari.
A partire dal 30 di gennaio sarò ospite al tour di Luca Carboni, Fisico&Politico. Poi una cosa a cui tengo molto è il concerto a Cervia, la prossima estate, un luogo che è nel mio cuore e che considero la mia seconda casa.