Dal 31 gennaio è entrata in vigore in Italia la cosiddetta “Legge sul biotestamento”, ossia la legge del 22 dicembre 2017 n°219 che dispone in materia di fine vita, garantendo al cittadino la tutela delle proprie volontà in merito ai trattamenti sanitari che gli spetterebbero nel caso in cui dovesse perdere un giorno la possibilità di intendere e di volere o anche semplicemente di esprimersi.
La legge arriva dopo tantissimi anni di lotte, facilmente ripercorribili sulle pagine di cronaca: Pergiorgio Welby, Eluana Englaro e il recentissimo caso di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, sono nomi che l’Italia non potrà mai dimenticare, perché legati alle più famose battaglie in materia di tutela dei diritti sul fine vita. Ma accanto a questi ci sono tantissimi altri nomi che andrebbero ricordati: Giovanni Nuvoli, Paolo Ravasin, Walter Piludu, tutti accomunati da un solo desiderio, cioè quello di essere accompagnati e supportati nella propria scelta di porre fine a un’esistenza che per loro non era più degna di essere chiamata vita.
“Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.
Le parole iconiche di Piergiorgio Welby, nella lettera inviata nel 2009 al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sono diventate manifesto per tutti coloro i quali vivono direttamente o attraverso i propri cari una situazione che li porta a interrogarsi se valga ancora la pena o meno continuare a soffrire in nome di una vita non più vita.
La lunga battaglia di Piergiorgio Welby ha ormai trovato compimento, ma molte altre persone continuano a lottare per la difesa di questi diritti: i suoi compagni dell’Associazione Luca Coscioni, per esempio, che lavorano per “liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati”. E una delle voci più importanti di questa associazione è sicuramente quella della moglie di Piergiorgio, Mina Schett Welby, che abbiamo incontrato a Messina.
“Credo che proprio il fatto che sia stata fatta una legge su questa tematica, sulla libertà fino alla fine della vita, sulla libertà di vivere fino alla fine, sia un segno che il qualunquismo delle persone alla fine vada a perdersi”, dice Mina Welby. Sottolinea l’importanza di far comprendere ai cittadini che la legge sul biotestamento non è una legge sull’eutanasia, non ammessa in Italia, ma una tutela per le persone che vengono accompagnate dallo Stato in un percorso che va dalla nascita fino agli ultimi attimi della propria esistenza, e che tuteli la loro libertà di vivere la vita fino all’ultimo secondo, esercitando in ogni momento la propria volontà: “Questa non è eutanasia: questo vuol dire che un fiduciario, un parente o chiunque la persona vuole, faccia le veci sue su quello che ha scritto davanti al medico. Se poi sussiste un impedimento a questa azione, serve che sia un giudice a tutelare, a decidere per il bene ultimo di questa persona che sta in difficoltà”.
Al primo posto nella battaglia di Mina Welby, dell’Associazione Luca Coscioni e di tutti quelli che quotidianamente si trovano coinvolti in situazioni simili, c’è la necessità di tutelare la libertà di scelta anche nell’ultima fase della propria vita: “I cittadini hanno il diritto di essere sostenuti e di vivere come vogliono, quanto vogliono e con chi, e di essere curati a casa, assistiti da medici che sappiano parlare con loro. I cittadini hanno la possibilità di usufruire di questo aiuto, di essere curati, sostenuti, anche con le cure palliative, perché di questo si parla in questa legge. È un accompagnamento dall’inizio, dalla nascita, fino alla fine”.
Eppure nonostante ormai sia parte dell’ordinamento a tutti gli effetti, la legge sul biotestamento è in una posizione potenzialmente precaria, poiché l’opinione pubblica è ancora in parte contraria. Ma Mina non ha paura e, davanti all’ipotesi che la legge possa essere modificata o addirittura abrogata, dice: “Andrei sulla piazza, mi incatenerei all’obelisco davanti a Montecitorio, ma non credo che verrà stravolta. È una legge per i cittadini, non conosce né destra né sinistra, non è una legge di partito per un partito ma è uguale per tutti, perché tutti devono avere lo stesso diritto, la stessa possibilità di vivere fino alla fine”.
Mina Welby racconta anche di quanto sia facile parlare di questi temi con i ragazzi più giovani, spesso molto più disposti all’ascolto rispetto agli adulti. Negli incontri fatti in varie scuole in tutta Italia, anche all’interno di progetti di alternanza scuola-lavoro, Mina ha parlato loro così: “Tante volte i ragazzi sono quelli che sentono di più e sono quelli che vorrebbero aiutare ancora a vivere e vivere veramente bene. Io direi ai tredicenni ‘Tu con tua nonna sii carina, falle una carezza, perché per te per tutta la vita sarà un ricordo bellissimo come tua nonna ti ha sorriso’ ”.
E in effetti si riduce tutto a un atto d’amore, lo stesso atto amore che Mina ha dimostrato sempre nei confronti del marito, standogli accanto e lottando con lui, supportando la sua battaglia e i suoi desideri: “Un atto d’amore che deve perdurare fino alla fine, dove si accompagna veramente una persona fino alla fine. Dove anche i parenti vengono inglobati, per esempio nelle cure palliative. Vengono aiutati a sopportare insieme al malato tutte le varie sofferenze che possono essere lenite, ma quando arriva la fine, chi soffre può essere sedato e aiutato a morire dignitosamente”.