Un calvario che dura da 20 anni. Una storia raccontata tante volte quella del Birrificio Messina, tra momenti di disperazione e di abbandono, fino alla recente rinascita di una realtà che ormai tocca l’intera cittadinanza. La storia di questi 15 operai ‘DOC’, come amano farsi chiamare, è ormai storia di Messina. Ma oltre le vicende apparse sui giornali, dietro i manifesti e i megafoni. Nella penombra delle grandi manifestazioni, 15 storie, 15 famiglie meritano di essere ricordate per il loro essere PERSONE.
Abbiamo intervistato Mimmo Sorrenti e Francesca Sframeli, presidente e vicepresidente della cooperativa che ha permesso alla nuova Birra dello Stretto di divenire finalmente una realtà da assaporare. In tutti i sensi.
Ci accoglie Mimmo Sorrenti, un presidente fuori dagli schemi. Un factotum. Lontano dalla mentalità che vede la figura del presidente relegata dietro una scrivania o impegnata in questioni burocratiche. La cravatta lascia il posto alla tenuta da lavoro. Il lavoro amministrativo e le pratiche burocratiche si fondono con un impegno costante anche a livello manuale. Il suo ufficio è l’intero birrificio. Collega tra altri colleghi. Amico tra amici. Con lo stesso intenso impulso a voler ricominciare. E’ in gioco il suo futuro, come quello degli altri quattordici suoi pari, che quotidianamente e coraggiosamente affrontano una sfida che dura da anni. “Siamo tutti dipendenti dello stesso stabilimento” afferma Sorrenti, con quell’umiltà mista a orgoglio propria di chi conosce il lavoro vero. Il sacrificio vero. Quello stesso sacrificio che quotidianamente è stato supportato da un forte orgoglio di appartenenza al territorio. Un territorio da sempre solidale verso la causa della allora ‘Birra Messina’, sin dall’insorgere dei primi problemi, negli anni ’90, dalla vendita alla Dreher e successivamente alla Heineken.
“Come primo taglio alla nostra indipendenza produttiva hanno chiuso la sala cottura – spiega la Sframeli – anche se ancora prima di questa chiusura potevamo contare anche sulla malteria. Producevamo noi stessi il malto necessario alla produzione della birra. Quando siamo stati assorbiti dalla Dreher, per prima cosa hanno chiuso la malteria, preferendo comprare il malto già prodotto presso altre strutture. La successiva chiusura della sala cottura ha definitivamente segnato la nostra dipendenza da altri stabilimenti. Successivamente, con la Triscele e l’acquisto da parte di Faranda dello stabilimento, si è deciso di acquistare la birra a Lubiana e un impianto di infustamento che, dopo essere stato smontato e trasportato a Messina, con i relativi costi per il personale in trasferta, non è mai entrato in funzione e il progetto è stato abbandonato”.
E con il progetto, abbandonate le persone, i tecnici, gli operai. Tutti. Il ricordo dei momenti successivi, immagini di persone su un muro pronte a darsi fuoco per denunciare una situazione non più sostenibile, è ancora vivo, ma è un passato che, come afferma lo stesso Sorrenti “non vogliamo più ricordare. E’ un ricordo che non vogliamo più riprendere”. Ora c’è solo la voglia di continuare in quell’impresa che ha permesso a quei terribili ricordi di divenire un passato ormai remoto. “Un gesto estremo dettato dalla disperazione del caso – continua la Sframeli – ma una volta tornato l’equilibrio, abbiamo capito che la strada giusta da prendere sarebbe stata quella che ci ha poi portato a rimboccarci le maniche, unirci in un progetto e non cedere più alla disperazione”.
Ma formare una cooperativa non significa solo impegnare il proprio tempo e le proprie energie. Ha significato anche mettersi in gioco e investire tutto ciò per cui si è lavorato per decenni. I membri della cooperativa hanno investito tutti i propri risparmi, tutto il TFR e la mobilità in un’impresa dal futuro incerto. Ma lo hanno fatto. Una somma complessiva di circa 750 mila euro. A questo devono sommarsi i prestiti. Un mutuo della durata di dieci anni, ai quali vanno aggiunti i cinque già trascorsi nella più totale inattività. Il fatto che le prime birre siano state stappate non si traduce in guadagno. “Stiamo solo cominciando a pagare i debiti pregressi, dovuti a un ritardo non indifferente.
La produzione avrebbe dovuto avere inizio un anno e mezzo fa – precisa Sorrenti – un anno e mezzo in cui abbiamo dovuto pagare circa 25 mila euro al mese”. Il non aver potuto iniziare in tempo è uno dei rimpianti di Sorrenti e compagni, al quale si unisce uno ben più grande: l’aver dovuto rinunciare a una produttività di 400 mila ettolitri, a fronte di una attuale capacità di produzione pari a 50 mila ettolitri. “Avremmo potuto garantire posti di lavoro per molti messinesi” ci racconta Sorrenti dimostrando quanto spirito di compartecipazione spinga il progetto. Altri sacrifici, altre rinunce.
Spese, impegni, sacrifici. Condizioni affrontate non da imprenditori che rischiano una piccola parte del proprio patrimonio in un’impresa dalla riuscita incerta, ma da persone comuni che stanno rischiando tutto il proprio futuro. Viene spontanea una domanda tanto banale quanto esemplificativa, utile a rendere l’idea di una condizione troppe volte offuscata dalla grandezza degli eventi.
“Da quanto non vi comprate un paio di scarpe nuove?”.
I due sorridono. Sorpresi dalla domanda tanto diretta quanto mirata. “i sacrifici li abbiamo fatti e sappiamo che dovremo farli ancora per molto tempo – afferma sorridendo la Sframeli – ciò che ci permette di continuare è lo sperare che il futuro che ci aspetta sia un po’ più prospero”. E nel frattempo molti figli di operai sono riusciti a laurearsi, con sacrifici dalla portata poco sottolineata. Si è tanto parlato di un’impresa che ha dello straordinario. 15 coraggiosi operai che hanno combattuto contro la rassegnazione. Ma ciò che è rimasto nell’ombra, è una quotidianità perennemente messa in gioco. 15 vite che non si interrompevano al termine di una manifestazione. 15 persone che, tornate a casa, dovevano fare i conti con la vita, quella delle bollette, della rata da pagare, delle tasse universitarie, dei libri di scuola, della pentola sul fuoco. 15 persone che hanno deciso di restare, combattere e continuare. “Siamo riusciti ad andare avanti grazie all’impegno passato – vuole sottolineare Sorrenti – lo stipendio che ricevevamo dal vecchio birrificio ci ha permesso di mettere da parte qualcosa. E nei 5 anni passati senza percepire nulla abbiamo impiegato tutto per permettere ai nostri figli di crescere e studiare. E’ giusto che sia andata così.”
Una storia che coinvolge quindi non solo i 15 ‘DOC’ della birra, ma anche le famiglie. Interi nuclei familiari che hanno accettato l’investimento di tutti i risparmi, della mobilità e del TFR, per supportare un’impresa che avrebbe potuto sconvolgere ulteriormente un equilibrio ormai violentato. “Già dal primo giorno della vertenza le nostre famiglie erano consapevoli di ciò cui saremmo andati in contro – ci racconta Sorrenti – e tutti, mogli, mariti, figli, ci hanno ripetuto di andare avanti. L’appoggio delle famiglie è stato presente fin dal primo giorno. E a questo si è poi aggiunto quello di tutta la città. Così siamo potuti andare avanti”. Alla famiglia naturale si lega quindi la città tutta. Con soddisfazione ci raccontano di come il web straripi di foto e commenti sulla nuova birra.
Gli occhi si illuminano quando parlano di quando si sono resi conto di aver fatto qualcosa di grande. Di importante. La cooperativa è arrivata a rappresentare per tutta la cittadinanza un segno di svolta e di rinascita. Quella parola tanto utilizzata da divenire quasi inflazionata, ma così adatta da non poter essere ignorata. “Per i nostri figli siamo motivo di orgoglio” ci racconta la Sframeli, nascondendo con il sorriso una commozione quasi tangibile. Ai figli degli operai si uniscono virtualmente tutti i figli di Messina. “Molti di noi, me compreso, avremmo potuto attendere la pensione – ci confessa Sorrenti – io stesso ho 37 anni di servizio. Ma se abbiamo fatto tutto questo non è solo per un riscatto emotivo, per recuperare una dignità lavorativa. Lo abbiamo fatto anche per i giovani, per dimostrare che se si vuole fortemente qualcosa si deve lottare. Abbiamo voluto regalare qualcosa alla città, e ai nostri figli. E ne siamo orgogliosi”.
Ed è un orgoglio condiviso. Mentre parliamo vediamo tanti ragazzi gironzolare per lo stabilimento. Figli di operai che vogliono vedere e toccare un impegno concretizzatosi. Sentire quel profumo che i genitori non sentivano da anni. “Quando sono entrato per la prima volta nello stabilimento dopo l’inizio della prima cottura ho sentito l’odore che non sentivo da 15 anni. Non un odore, ma un profumo meraviglioso – ci confessa Sorrenti – con alcuni colleghi ci siamo stretti in un abbraccio e, senza vergogna, vi dico che mi sono commosso per la gioia. Una gioia che è diventata ancora più grande nel momento in cui abbiamo imbottigliato. La prima bottiglia ha provocato un’emozione che non si può descrivere”.
15 operai intorno a un trofeo. Il premio per un sacrificio ancora in itinere. Il talismano per un futuro da costruire.
Torniamo a casa con una ‘Birra dello Stretto DOC 15 Premium’. “ ‘DOC 15’ perché ci sentiamo DOC! ‘Dello Stretto’ perché vogliamo ringraziare Messina” ci spiega un operaio.
Ora quella birra domina come un monito sul mio armadio. Non credo la aprirò mai.