Canta “Lily Kangì” ( la vecchia canzone napoletana che fa “Chi me piglia pe’ francesa, chi me piglia pe’ spagnuola…”) in ebraico e napoletano insieme e le sue movenze, per l’occasione, sono quelle sfrontate di un’autentica sciantosa fin de siècle. E’ evidente che Noa sente molto affine a se questo brano e si identifica in un personaggio dall’identità multipla ma ben radicata nel calore del mondo mediterraneo.
Come potrebbe essere diversamente per un’artista figlia di yemeniti , cresciuta a New York ed emigrata poi in Israele a riappropriarsi delle proprie radici ebraiche? Al di là degli antichi stereotipi sull’ebreo errante, la biografia di Noa sembra davvero incarnare la costante ricerca del dialogo, dell’ibridazione fra culture diverse, il sentirsi a casa ovunque, pur non cessando di ricercare oltre ogni barriera la propria terra-madre.
Il concerto che Noa ha tenuto a Taormina qualche sera fa, a conclusione dell’ultima edizione dell’Horcynus Fest, è stato l’occasione per materializzare davanti agli occhi di un pubblico non numerosissimo ma appassionato un viaggio fatto di antichi canti yemeniti, sonorità dal sapore fortemente americano che accompagnano testi in ebraico, canzoni e arie della più nobile tradizione napoletana riproposte con amore ma senza complessi di inferiorità. Un dono che nasce dall’idea che la musica sia un mezzo privilegiato per costruire la pace e la convivenza fra culture, nel segno comune dell’universalismo.
C’è però chi rifiuta quest’offerta, ritenendola “falsata” da alcune dichiarazioni rilascate dall’artista nelle settimane terribili dell’inverno del 2008-2009, quando Tsahal, l’esercito di Israele, scatenò una spaventosa offensiva, passata alla storia col macabro nome di “piombo fuso”, rivolta contro gli uomini di Hamas nella striscia di Gaza, senza farsi scrupolo di fare innumerevoli vittime civili, compresi i piccoli allievi di una scuola primaria. In quell’occasione Noa si rivolse al popolo palestinese augurandogli una rapida “liberazione” dal “cancro” del terrorismo e del fondamentalismo islamista da ottenersi attraverso la vittoria delle armi israeliane. Parole pesanti , che suonano come una tragica beffa davanti alle lacrime dei superstiti e alle devastazioni dei cacciabombardieri. Che, soprattutto, stridono fortemente con un percorso umano e culturale fino ad allora limpidamente dalla parte della pace.
Noa , purtroppo, non è stata sola in quella circostanza. Altri esponenti del mondo progressista e della cultura israeliana , a partire da Abraham Yehoshua e Amos Oz giustificarono in nome della “lotta al terrorismo” quegli atti di guerra. Le stesse persone che si erano opposte risolutamente ai massacri nei campi palestinesi in Libano, alla repressione dell’Intifada non hanno avuto le stesse parole di sdegno nei riguardi di Piombo Fuso.Non è facile trovare una ragione plausibile a questo radicale mutamento. Chi la conosce da vicino potrà spiegarci meglio come e quanto la società israeliana , e con essa, una parte significativa dell’ebraismo della diaspora, abbia subito -ne più e ne meno di tutte le società occidentali- le conseguenze della “guerra globale permanente” che si è aperta dopo l’undici settembre del 2001. Dalla sconfitta del movimento pacifista mondiale, alla crescita esponenziale di politiche securitarie che si alimentano di paura e da essa sono alimentate, e il discorso sulla paura delle persecuzioni e dell’annientamento come costante dell’identità ebraica da tempo immemorabile, sarebbe il naturale corollario di questa riflessione ma è meglio lasciarlo chiuso perché porterebbe troppo lontano.Resta lo scacco per questa resa alla logica della guerra e del nemico da abbattere che accomuna lo smarrimento di parte della comunità intellettuale israeliana e , paradossalmente, anche molti amici del popolo palestinese, come quelli che chiedono a gran voce il boicottaggio dei concerti di Noa come dei festival dedicati agli scrittori ed ai registi israeliani.
Non credo che il boicottaggio degli artisti sia uno strumento efficace di lotta contro la politica dei governi di destra dello stato di Israele. Il boicottaggio è una forma di lotta nonviolenta rivolto soprattutto a colpire gli interessi economici di chi opprime un popolo o una classe sociale, questa sua natura lo rende un metodo certamente preferibile alla guerra. Tuttavia le attività culturali, pur comportando vendite di libri o di biglietti di mostre e concerti, non sono semplicemente un ramo del’import-export di un paese. Sono lo strumento primario della conoscenza reciproca, dell’abbattimento di ogni frontiera, materiale e immateriale.Basterebbe questo a suggerire di scegliere altri terreni per contrastare la deriva militarista e paranoica della classe dirigente d’Israele. Ma non è solo questo.
Cosa si pensa di fare in favore di una pace vera in Medio Oriente se si confondono governi e società civile, piloti di caccia e musicisti, abitanti delle città e coloni? La società della sponda sud del Mediterraneo sono state attraversate da una salutare scossa democratica di cui sono stati protagonisti soprattutto i giovani che hanno rivendicato insieme diritti e libertà, bisogni materiali e immateriali, senza riproporre assurde gerarchie di priorità fra gli uni e gli altri. Israele, benchè poco se ne dica dalle nostre parti, non è su un altro pianeta rispetto a tutto ciò e i cambiamenti che si stanno producendo prima o poi porteranno anche a una visione nuova della questione palestinese e della convivenza fra diversi popoli in Palestina.
Vedere questa realtà in evoluzione come un blocco monolitico dove le liste contrapposte dei buoni e dei cattivi sono ancora quelle di trent’anni fa, anche se si sta dalla parte “giusta”, non aiuta a spostare la situazione di un millimetro. Forse serve a rafforzare le nostre certezze vacillanti. Non credo che aiuti i ragazzi e le ragazze a costruirsi un futuro diverso e più umano, siano essi di Gaza o Tel Aviv.