Così Silvano Agosti mi raccontava durante l’intervista che gli feci per la mia tesi: «Le nostre società sono organizzate e gestite da mostri. Quello attuale non è più fascismo ma nazismo. Non ci sono più le docce tramutate in camere a gas perché anche quel tipo di regime si è evoluto, ma ha creato nuovi e più subdoli metodi per annientare l’essere umano». Un mostro molto potente è la crisi economica pilotata dal potere che costringe un po’ tutti giovani e meno giovani a disumanizzarsi pur di guadagnare un po’ di soldi utili a tirare a campare. I nuovi “campi di sterminio” oggi sono i call center. “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) recitava lo slogan sui cancelli ad Auschiwitz. Ai cancelli dei call center non campeggia alcuna scritta, ma se a qualcuno capita di discutere con un amico che ci lavora proprio questo è il paragone che sovente usa per descrivere il suo posto di lavoro. È un nuovo schiavismo. L’azienda è libera di sfruttare i mal capitati che per necessità si trovano a bussare a quei cancelli.
Avendo letto il suo libro “Yes we call. Vita di un operatore call center” decido di fare una lunga chiacchierata con Gabriele Fabiani. Voglio capire meglio come funzionano questi call center “nuovo Eldorado” per imprenditori e politici.
I call center, secondo me, possono essere assimilati a nuove prigioni sociali nelle quali vengono rinchiuse una moltitudine di soggettività diverse tra loro: studenti, disoccupati, padri e madri di famiglia, laureati di belle speranze. Una nuova forma di schiavitù. E poi molti politici imbastiscono la propria campagna elettorale promettendo posti nei call center. Qual è la tua opinione personale trascendendo dalla tua esperienza?
Io parto da una tua parola che è schiavitù, che è spesso la parola che uso io per descrivere questo nuovo modo di lavorare. Innanzitutto il call center è un grandissimo contenitore di tantissime tematiche che si diramano all’interno dei vari uffici e delle varie stanze che lo formano. È un ambiente che racchiude dentro di sé non solo la problematica del lavoro giovanile e dello sfruttamento del lavoro giovanile ma anche gli effetti della crisi che colpiscono le famiglie; molte infatti sono le persone adulte che si trovano a lavorare in questi luoghi. Ma perché è una schiavitù? È una schiavitù perché anche se alcuni contratti sono regolamentati dal nostro ordinamento, sono contratti che in sostanza non corrispondono a quello di lavoro. I contratti usati sono spesso contratti di collaborazione, contratti a progetto. Alla fine non si lavora a un progetto ma si sta costantemente in azienda 7 giorni su 7, dalle quattro alle otto ore perché, anche se non c’è un vero e proprio regolamento che dica quante ore passare in azienda, il datore di lavoro vuole che l’operatore call center lavori come un full time normale. In sostanza l’azienda ha un lavoratore come se fosse full time con un contratto nazionale, con turnazioni e con fasce orarie prestabilite ma in sostanza paga un operatore a progetto. Oltre a ciò lo schiavismo c’è in quanto si spinge molto sull’operatore per raggiungere degli obiettivi. Vi è l’obiettivo di vendere il cestino di prosciutti, di salami, di detersivi, le compagnie telefoniche propongono pacchetti di telecomunicazione per risparmio o per il risparmio energetico. L’azienda che commissiona il lavoro dall’agenzia madre oppure è una sub commissione per conto terzi deve spingere al massimo per il rendimento. Spingere al massimo significa sfruttare la forza lavorativa vincolandola ad alcuni parametri come l’orario e alla turnazione e istruendola soprattutto a come far breccia in quello che è l’utente. Questo vuol dire inculcare nell’aspirante operatore la logica del guadagno se attivi, se vendi e nel recupero crediti se recuperi. Questo trasforma l’operatore in una macchina, in un killer che perde il senso davanti al cliente e che pur di guadagnare e arrivare a quei 400-500 euro al mese è disposto a fare di tutto. E lo schiavismo è proprio questo: sottopagare avendo un rendimento molto alto, una qualità a volte molto alta e un ritorno economico che non si basa in effetti solo sulla vendita del prodotto. Bisogna pensare che quando l’operatore chiama e fa centoventi chiamate in una giornata per centoventi volte ripete il nome dell’azienda quindi quella è una pubblicità indiretta, andrebbe anche retribuita ma non lo fa nessuno. Non bisogna far distinzione tra inpound e outpound (se si chiama o si riceve). Bisogna tenere in conto di quanto l’operatore sta in azienda e di quanto investe nell’azienda perché anche se non si attiva un abbonamento ma si lavora sulla ricerca di un cliente che è disposto ad abbonarsi implica mettere mano ad alcune liste, chiamare, richiamare, segnarsi l’appuntamento, convincere. È comunque un lavoro. Non possiamo considerarlo un lavoro obiettivo altrimenti tutto bisognerebbe considerare come obiettivo. I pizzaioli dovrebbero essere pagati in base al numero di pizze che sfornano, i camerieri in base a quante persone servono e a quanti piatti portano, anche nell’amministrazione pubblica a quel punto converrebbe di più assumere a progetto, i dipendenti del centro per l’impiego per quante pratiche riescono a svolgere e anche all’Inps andare a pagare gli operatori sportello in base a quante persone riescono a sbrigare. Invece solo gli operatori call center e quelli di qualche altra attività si trovano in questa situazione. E l’azienda, dal canto suo, non ti tratta come un lavoratore a progetto. No. Ti pressa, si svolgono delle riunioni in cui vengono espresse le volontà dell’azienda che è quella di fare obiettivo e di incrementare la produzione degli abbonamenti fatti o del recuperato. Se non si è in quella graduatoria di operatori migliori si ricevono spesse volte richiami e avvertimenti. Si assiste a un vero e proprio mobbing sull’operatore ma che l’operatore non meriterebbe. L’operatore a progetto potrebbe gestire la propria attività lavorativa come e quando vuole, in teoria non ha vincoli mentre invece è tutto il contrario. Per esempio se si manca si viene chiamati dall’azienda, i sabati sono spesso obbligatori e alcune volte si lavora anche di domenica. È un mondo su cui nessuno riesce a mettere mano. Alcune volte i call center sono come una lavatrice utili per riciclare i soldi delle organizzazioni mafiose e un bacino di voti per i nostri politici. Quando un politico tempo fa riceveva le richieste d’aiuto da una famiglia era dura perché dovendo impiegare una persona o due doveva cercare il lavoro, allora i call center non c’erano e venivano sistemati nelle poste, nella sanità, in vari uffici. Invece adesso un politico con i call center si è semplificato la vita perché sistema 20-30 persone che prendono sulle trecento euro, la famiglia è contenta perché si lavoricchia. È sempre un cane che si morde la coda perché quei trecento euro non ti danno la possibilità di mettere su famiglia o andare a vivere fuori casa. Per il politico questa è una strada nuova e quando ne è venuto a conoscenza si è sfregato le mani. Si deve tener conto di un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica nel quale si raccontava che gli imprenditori che vengono ad investire in Calabria non si rivolgono al centro per l’impiego ma ai politici di turno. I call center sono invece destinati a povere anime come noi costrette a subire questo supplizio.
Vi è un ricambio continuo nei call center, quasi come delle fabbriche di nuovi automi pronti a tutto pur di racimolare qualche centinaia di euro non considerando il fatto che si viene il più delle volte sfruttati.
Nei call center si impara la solita solfa a memoria e la si ripete per tante tantissime volte. Intorno all’Università della Calabria, nell’arco di pochi chilometri ci sono 10-15 call center. È facile trovare nuova “manodopera”. Non serve la lotta di chi dice che domani ce ne andiamo tutti perché c’è la fila per entrare a lavorare nei call center, soprattutto per chi non conosce questo mondo. Perciò è importante che non solo io che ho scritto un libro sui call center ma anche le associazioni e i sindacati e la politica devono rendersi conto che quel sistema non è il futuro per noi giovani.
Chantal Castiglione
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