Carceri, la mafia e le rivolte

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Che dietro la vicenda delle sommosse carcerarie ci fosse la mafia era una eventualità da prendere subito in considerazione. Anche solo guardando alla storia delle rivolte nel nostro paese, è possibile considerare che non vi può essere iniziativa violenta ed organizzata a danno del sistema penitenziario senza una regia esterna, degli obiettivi, una strategia condotta da menti raffinate.
Adesso bisogna capire quanto è possibile fare per impedire che l’assenza di condizioni di sicurezza interna, possa favorire in futuro fenomeni come questi.

Da ANTIMAFIA 2000
di Karim El Sadi
Il decreto legge del governo usato come pretesto per soffiare sul fuoco del malcontento della popolazione carceraria

Da mesi la Procura Nazionale Antimafia sta indagando in maniera approfondita per capire chi, come e soprattutto perché a inizio marzo in molte delle carceri d’Italia, da nord a sud, abbia scatenato le rivolte di cui le cronache hanno parlato fino a pochi giorni fa. Sommosse, va ricordato, che magistrati come Sebastiano Ardita hanno definito come un unicum della storia della Repubblica sia per violenza (13 detenuti deceduti, molti agenti feriti e circa 12 milioni i danni alle strutture), che per il singolare sincronismo con il quale si sono manifestate, per cui hanno portato molti degli addetti ai lavori a parlare di “regia”.

Le proteste, avvenute in 49 istituti su 194 totali, tra case circondariali e di reclusione, si sono concentrate dal 7 al 9 marzo ma in realtà le “fiamme” sono rimaste vive presso modo fino al 20 aprile. Ora, sotto rigoroso segreto istruttorio, l’attività d’indagine della Dna sta portando alle prime risposte e tutte le piste, come scrive questa mattina Repubblica, sembrano portare ai boss mafiosi. Sarebbero stati loro ad aver colto al volo l’occasione – come bene sanno fare – per soffiare sul malcontento di una buona parte della popolazione carceraria (10.311 detenuti, questi i dati ufficiali, circa un sesto dei detenuti complessivi in Italia), privata, fino al 31 maggio, dei colloqui con i congiunti e la possibilità di interrompere permessi premio e il regime di semilibertà come previsto dal dl “misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica”. Approfittando di queste condizioni la criminalità organizzata avrebbe spinto gli altri detenuti a “fare un quarantotto” mettendo sotto assedio gran parte degli istituti di detenzione del Paese. “È tutto fuori controllo. – diceva il 9 marzo un agente della penitenziaria ai suoi superiori al telefono – I detenuti mi hanno detto di spargere la voce: da questo momento comandano loro”. Scene che gli esperti hanno paragonato a quelle viste nelle carceri sudamericane dove insurrezioni, omicidi ed evasioni sono all’ordine del giorno.

Arriva il decreto e scatta la rivolta
La miccia si accende il 7 marzo 2020 quando i giornali anticipano il contenuto della bozza del decreto legge “misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica” che, come detto, imponevano restrizioni ai detenuti al fine di scongiurare il rischio di contagi in carcere. I boss non aspettavano altro. “Era il pretesto che in molti, dentro, stavano aspettando per scatenare il caos”, ha spiegato a Repubblica una qualificata fonte del ministero della Giustizia.

“Già a partire da dicembre si erano registrati segnali di tensione nell’Alta Sicurezza (le sezioni a stretta sorveglianza dei condannati per reati di tipo associativo, come mafia e traffico di droga, ndr)”. Quella mattina nel carcere salernitano di “Antonio Caputo” di Fuorni 24 detenuti iniziano a protestare. Vengono chiamati a intervenire 189 agenti della penitenziaria. Il malcontento, accompagnato dai disordini, dilaga nel carcere di Poggioreale (900 coinvolti, danni per due milioni di euro), Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere.

Le rivolte in poche ore arrivano anche fuori dalla regione Campania, nelle carceri pugliesi, siciliane e nel resto d’Italia con un sincronismo inquietante, come hanno osservato alcuni addetti ai lavori, soprattutto alla luce di ciò che ne conseguì nelle settimane successive con le scarcerazioni di 376 tra narcos e boss mafiosi, di cui anche alcuni al 41bis.

Stando alle prime risultanze degli investigatori, come riporta Repubblica, nelle rivolte carcerarie i boss “pugliesi e napoletani sono stati la parte “azionista”. Mentre i siciliani ma soprattutto i calabresi, questi ultimi rimasti tranquillamente nelle proprie celle senza aderire ai disordini, quella politica. Sfruttando il sovraffollamento e il malessere dei detenuti con dipendenze, “per ottenere i benefici che da tempo chiedevano”. Basti pensare a ciò che è avvenuto in alcune strutture, tra queste quella di Salerno, dove alcuni insorti hanno consegnato agli agenti una lista di richieste precise, tra le quali la possibilità di fare video chiamate con i famigliari, i domiciliari laddove possibile, nonché l’esclusione di sanzioni per chi ha aderito alle rivolte.

Richieste che, a quanto risulta, sarebbero state in parte assecondate

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