Chi pesca uomini invece che pesci

«Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli: Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.»

(Vangelo di Matteo 4,18-20)

 

Nulla a che vedere con i Vangeli è la realtà però, decisamente meno felice. Terribile. Cruda, fetida. Non è facile, non è umano. Il mare guarda, a volte immobile, altre volte infuriato, per i drammi che – impotente nella sua immensa potenza – deve sopportare, per le vite che vede ogni istante spezzarsi dentro il suo ventre, per le storie umane che inconsciamente divora nella schiuma della sua bocca. Esseri che si divincolano, strepitano, nell’ultimo ardore  prima della calma eterna, si contorcono nelle facce e nei gesti, in movimenti del corpo innaturali quanto il solo stesso fatto di dover lasciare la propria terra per cercare la pienezza della vita altrove. Dentro barchette di carta così docili al vento notturno, un triste Mar Mediterraneo – così trascurato, così inutile al paragone di mari più neri, più redditizi, più ricercati e più benvoluti, per i quali muovere guerre in ogni continente – ma più orgoglioso – così libero, così vigoroso, impossibile da contenere dentro barili di soldi torturati sulle altalene di Wall Street – , un tale Mare accompagna il viaggio dei migranti, e a loro offre la via del miraggio, della speranza, di un’esistenza libera e vera. Vissuta.

Ma non solo il mare – nella sua ambiguità, nel suo tenero moto o nel tempestoso andare – è pronto a prendersi cura di loro, di questi frutti dell’ennesima diaspora, reietti figli di un mondo che, così presuntuoso, crede di non avere bisogno di loro, delle loro vite, dei loro corpi e dei loro gesti, della loro forza e dei loro desideri. In questo mare così buio, scuro in viso come il mondo che da milioni di anni gli offre la tana, ci sono anche Pietro ed Andrea, uomini semplici, semplici uomini, così poco biblici nei loro calli, nei loro volti stanchi, nelle loro anime da perenni migranti, con gli occhi che brillano soltanto quando sono in mezzo al mare, fratello e compagno di sempre. Pescatori di sgombri, di aguglie, di costardelle. Pescatori di pesci. Pescatori, per portare a casa qualcosa da mangiare, quel pezzo di lavoro sfruttato dalle importazioni estreme, dalle leggi del profitto assoluto, dalla globalizzazione distruttiva delle risorse, dell’ambiente, della salute e delle forze produttive. Pescatori di pesci, Pietro e Andrea, ma, ancora un volta, pescatori di uomini, di vite disperse fra i flutti, di speranze condannate all’oscurità della delusione, dello sconforto. È nel mezzo di questo Mare che si incontrano le sue creature, a metà strada da terre diverse, che fuggono cercando – giorno per giorno, od una volta e per sempre – il proprio futuro attraverso i sentieri liquidi del Mare Nostrum. E, dalla barca che salpa dalla parte “buona”, nella fosca notte del mondo, capita di sentire i lamenti dei migranti, come sirene tradite, riempire il cielo di stelle malinconiche. Prima di vederli, Andrea e Pietro li sentono i figli illegittimi dell’altra sponda dello stesso mare – non più Nostrum, o mai stato forse – , e quando li senti non puoi che chiederti il perché.

Dalla barca lo senti chi piange, è impossibile non sentirlo. Chi, fradicio di dignità e sporco d’acqua, singhiozza nel buio di una luce mai abbastanza forte da scavare in fondo agli occhi di uomini e donne stanchi, senza più una terra d’origine, ma senza più nemmeno una meta, un punto d’arrivo dove distendere le braccia e gridare di gioia. Negli occhi dei bambini, senza più fanciullezza nel cuore, senza più gioia nel viso. Lo senti anche chi prega, lo capisci che prega, anche se in una lingua a te sconosciuta, perché ha sempre lo stesso respiro profondo, sempre lo stesso tono di incrollabile fiducia, la stessa forza nel respiro che si scioglie e nei muscoli che si rilassano – come a volersi abbandonare alla bontà della vita e delle sue pieghe – , di chi, nonostante tutto, non si rassegna alle ingiustizie, alle sofferenze, alla morte.

Pietro ed Andrea sentono tutto. E vedono. Sono pescatori. Oggi come ieri, pescatori. Ma, oggi a differenza di ieri, scendere in mare non significa più tornare a casa dopo la breve sosta sulla terra, tornare a respirare la libertà delle onde, contro il fumo delle macchine, emozionarsi al cospetto del tutto vuoto dell’infinito, fonte di vita contro le tremende squadrature dei palazzi e delle strade. Essere pescatori – per Andrea e Pietro – non è più l’eroica lotta fra uomo e natura che, così viva e forte, riempie lo spirito di chi legge Hemingway. È solo la disperazione, lo sconforto. Solo carcasse si vedono oggi, sogni infranti come onde su scogli troppo duri, indifferenti, impassibili. Sono i corpi senza vita dei migranti a sbattere contro gli scogli della politica, della burocrazia, di un Occidente vuoto, mentre l’aria sparata dalle bocche dei Capi di Stato e di Governo nelle conferenze internazionali è così priva di senso, così finta, così malata. Portavoce del nulla – i nostri Capi – , degli interessi economici, finanziari, militari di nessuno. Non di certo miei. Non di Pietro, né di Andrea. Nemmeno di Faysal o Abdel, anche loro pescatori.

Con l’amaro nel cuore, senza pesce nella rete, con gli occhi lucidi, anche questa notte tenebrosa si ritorna sull’isola, oramai senza acqua, priva di igiene, pronta per il «collasso» dicono i giornali. Ad aspettarli – ad Andrea e Pietro – un macabro corteo di cronisti d’assalto, all’assalto della notizia che non è più notizia. Per Faysal e Abdel la notte è radiosa invece, solo passare un giorno nel CPT sovraffollato e nel degrado più assoluto piegherà il sorriso che gli attraversa l’anima. Ma non più di tanto, perché loro sono fuggiti dalla guerra, dalla fame, dagli eccidi; anche soltanto dalla povertà, il che – al contrario di ciò che dicono gli uomini politici – non è meno dignitoso e meno fonte di diritti. Sono libici fortunatamente, e pensano che l’Italia avrà più pietà di loro, rispetto ai ragazzi che arrivano dalla Tunisia, già trattati come profughi di classe inferiore. «Come se esistesse una classe inferiore ai profughi» pensa Abdel, e ride. Sono 5mila i migranti presenti nella stessa piccola isola dove si trovano loro, e «raddoppiano la popolazione» dicono gli stessi cronisti di prima. Se non fosse per le organizzazioni umanitarie «ci sarebbero già morti per le strade» dicono i compagni tunisini. «Chissà quanto tempo rimarremo qui…» – pensa Faysal, che ha visto ammazzare il suo fratellino Mansūr nella sua casa a Tarnūnah, Libia occidentale.

Si sono incontrati al bar Andrea e Pietro, quanta gente che vedono passare. Sono coscienti che Lampedusa, la loro isola, è stata abbandonata dall’Italia, come l’Italia è stata abbandonata dall’Europa. Sembra quasi un carcere galleggiante oggi, così trasbordante di persone, ammassate le une sulle altre senza respiro. Sono arrabbiati, contro lo Stato, che lascia marcire tutti così – i migranti e loro. Sono proprio incazzati. La guerra in Libia, i raid aerei, la Risoluzione ONU, il contrattacco di Gheddafi, il petrolio, il dramma dei profughi, le dichiarazioni del Governo, la NATO, la portaerei statunitense, la nave San Marco, Sarkozy, Frattini, Cameron, Obama, La Russa, Saif al-Islam. E in mezzo loro.

«E in mezzo stanno i popoli» – pensano i pescatori. Il popolo libico, umiliato, martoriato, scannato dalle bombe della Jamāhīriyya e da quelle dell’Occidente. E il popolo europeo, statunitense, la popolazione mondiale, stretta fra gli interventisti e i neutralisti di Governo e d’Opposizione, ognuno con le sue buone ragioni, ognuno con i suoi egoismi da difendere, da anteporre alla libertà, alla stessa vita, agli stessi diritti umani – che predicano da secoli ormai – di un popolo. «Ma non gli crede più nessuno» – pensano ancora i pescatori. Pensano troppo questi pescatori, nella loro saggezza che sa di sale. L’Occidente è un guscio vuoto di perbenismo, di ipocrisie assassine, di falsi valori e false coscienze, di bugie spudorate e mancate verità, di sorrisi di plastica, di equilibri di cartongesso, dove le parole “stabilità”, “responsabilità”, “democrazia”, “internazionalismo”, sono la coperta corta di un totalitarismo che non ha più maschere buone da indossare, mostruoso come è mostruoso questo nuovo tentativo colonizzatore, le cui ragioni sono ora chiare a tutti. Mostruoso come la semplicità con la quale ci siamo rassegnati a ricevere bugie e sempre e soltanto bugie giustificatorie di atti di conquista ben precisi, ben poco democratici ed assolutamente ben poco giustificabili. I pescatori pensano e ripensano. «Si doveva intervenire in Libia, questo è certo! Speriamo solo che ora si fermino, e lascino al popolo libico la propria libertà, la forza per riprendersi la propria terra dalla tirannia, per ricostruirla davvero, dal basso, democraticamente». È il primo passo per risolvere anche il dramma di Lampedusa – ne sono coscienti i pescatori. Passano da lì Abdel e Faysal. Non hanno «le scarpe da ginnastica firmate, il giubbottino all’occidentale e il telefonino in mano» – come sottolinea il Governatore del Veneto Luca Zaia riguardo i migranti sull’isola. I pescatori siciliani li invitano a sedersi, potrebbero essere i loro genitori. Insieme ora ridono e scherzano – non hanno bisogno di una lingua comune per comprendersi – , mentre il dramma di due continenti sfuma, insieme alle bombe, alle loro spalle. Forse pescheranno insieme uno di questi giorni. Pesci, almeno stavolta.