Cinema e droga, un viaggio stupefacente

“Solo un altro sballato, in un mondo di sballati.“

Paura e delirio a Las Vegas, Terry Gilliam

 

“Che l’umanità in genere sarà mai in grado di fare a meno dei Paradisi Artificiali, sembra molto improbabile.”

Le porte della percezione, Aldous Huxley

 

A prescindere dal genere – che sia una pellicola di fantascienza, un western o un noir conta poco – ogni film ha la tendenza a rispecchiare la realtà, riflettendone paure, speranze, opinioni, sogni; ogni film insomma, volente o nolente, è espressione del proprio tempo e in quanto tale mette in scena, con tutto ciò che ne consegue, il contesto storico in cui esso viene creato.

In rapporto a ciò, si hanno quindi due modalità di rappresentazione: la prima è diretta e, come è ovvio, affronta temi e problemi in maniera esplicita ponendoli al centro della narrazione; la seconda modalità invece si esprime tramite metafore, similitudini e parallelismi.

Da questo assunto iniziale ne deriva che i film non sono mai obiettivi, ma tendono, sempre e comunque, ad esprimere una loro posizione, che poi, in realtà, è la posizione di chi il film lo crea, ovvero il regista, lo sceneggiatore o il produttore. Queste tre figure, rispetto ad una qualsiasi tematica, possono agire in tre modi, possono cioè sostenere o contestare un determinato punto di vista oppure cercare, anche se non sempre è possibile, di essere imparziali.

Chiaramente questa  presa di posizione è sempre mutevole e non può non dipendere anche dai flussi di pensiero che di epoca in epoca si susseguono: cambiando i costumi culturali cambia anche il modo di rappresentarli. Esempio lampante di ciò è il rapporto che il cinema ha intrattenuto, dagli albori ad oggi, col tema della droga.

Il primo film a trattare tale questione sembra essere Chinese Opium Den (1984), pellicola per kinetoscopi prodotta dalla bottega Edison, della quale però non resta traccia. Tuttavia lo stesso Edison, nel 1905, produrrà Reuben in the Opium Den, che già dal titolo si richiama al film precedente. Forse stupisce sapere che già alle origini il cinema si premuri di raffigurare il consumo di stupefacenti, ma è possibile immaginare che tale tema sia strettamente legato alla curiosità che le droghe hanno suscitato nel corso dell’Ottocento su intellettuali e non – basti pensare al De Quincey delle Confessioni di un mangiatore d’oppio e al Baudelaire dei Paradisi artificiali-, nonché al fascino esotico incarnato dalla cultura cinese. 

 Tuttavia, già nel 1921, l’Association of the Motion Picture Industry, anticipando di quasi dieci anni le misure restrittive del famigerato codice Hays, decreterà che la rappresentazione di tutto ciò che concerne gli stupefacenti – ma si parla anche di gioco d’azzardo, alcool e altre “pratiche innaturali” – risulta essere dannoso per la società, in quanto può influenzare il comportamento degli spettatori.

Siamo in pieno proibizionismo e gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra al traffico e al consumo di droghe e alcolici.

Ma ogni regola ha la sua eccezione, soprattutto se l’eccezione dà sostegno alla regola: nel 1923 Florence Reid, vedova dell’attore morfinomane Wallace Reid, produce Human Wreckage, un film d’exploitation ante litteram volto a stimmatizzare l’uso degli stupefacenti.

Negli anni Trenta il messaggio è sempre lo stesso e viene affidato a film quali Reefer Madness (1936) di Louis J. Gasnier o Marijuana: the Devil’s weed (1936) di Dwain Esper dove, sin dai titoli apocalittici, l’uso della cannabis viene marchiata come prodotto del maligno, capace di modificare così radicalmente le facoltà mentali dei protagonisti da spingerli a commettere atti criminosi quali stupro e omicidio.

Nel decennio successivo il Motion Picture Production Code approverà definitivamente la rappresentazione delle droghe, ma con la clausola che esse non stimolino in alcun modo la curiosità degli spettatori. Insomma, se ne può parlare, ma solo negativamente. È facile comprendere come, in questi anni, l’arresto di Robert Mitchum per possesso di marijuana abbia scandalizzato l’opinione pubblica.

Negli anni Cinquanta si passerà dalla marijuana all’eroina. Nel 1955 l’uso di questo oppioide verrà messo in scena in tutta la sua violenza, senza tuttavia concedere nulla alle esagerazioni che caratterizzano i film dei decenni precedenti, ma tentando di proporne una rappresentazione piuttosto realistica anche se intensamente drammatica. Il film in questione è L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm) di Otto Preminger, con Frank Sinatra nella parte di un batterista jazz intrappolato nel vortice della droga e del gioco d’azzardo. Il film esibisce un’intensità visiva inusuale, arrivando a mostrarci gli effetti dell’eroina sul protagonista – famosa la scena dei dettagli degli occhi con le pupille che si ristringono, citata da Claudio Caligari nel suo Amore tossico (1983).                                                                                                                                                              

Nel 1957 è la volta di Fred Zinnemann che con Un cappello pieno di pioggia (A Hatful of Rain), avvalendosi di uno stile asciutto ma vigoroso, denuncia gli effetti devastanti che la morfina, anche se usata a scopo terapeutico, hanno su un reduce della guerra di Corea. La lotta al traffico di stupefacenti invece trova una sua prima rappresentazione rilevante in Operazione segreta- Operazione droga (High School Confidential, 1958) di Jack Arnold, dove un poliziotto s’infiltra in una gang di spacciatori sino a sgominarla. Con gli anni Sessanta i costumi mutano e mutano anche le droghe: nel 1967 esce Il serpente di fuoco (The trip) di Roger Corman, una delle prime pellicole sull’uso di LSD. Basato sulla sceneggiatura di Jack Nicholson, il film narra del viaggio lisergico che Paul Groves (Peter Fonda) intraprende nel tentativo di trovare una soluzione ai suoi dubbi esistenziali. Le domande non avranno risposte ma, grazie  agli effetti caleidoscopici e alle improvvisazioni musicali degli Eletric Flag che caratterizzano le sequenze psichedeliche, Corman riesce a rappresentare gli effetti psichedelici che l’LSD hanno sulla mente del protagonista. Il 1969 è invece l’anno di un cult imprescindibile: Easy Rider di Dennis Hopper, un viaggio disincantato nelle contraddizioni dell’America degli anni Sessanta, guidati da due motociclisti interpretati da Peter Fonda e dallo stesso Hopper (nel cast vi è anche Jack Nicholson). Tra hippies, musica rock, acidi e flower power, il regista racconta il contrasto tra la cultura reazionaria americana e la sottocultura hippie, mostrando come la prima riesca a reagire alla diversità solo attraverso la violenza.                                                                                                                         

La fine del sogno dunque sembra vicina, e forse non è un caso che nello stesso anno Barbet Schroeder giri il suo primo film, Di più, ancora di più (More, 1969), dove una storia d’amore, condita con droga e Pink Floyd, avrà un tragico epilogo.

Il ’68 è passato definitivamente e, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, è nuovamente l’eroina a farla da padrona con film quali Panico a Needle Park (The Panic in Needle Park, 1971), di Jerry Schatzberg – incentrato sulle vicende di una prostituta tossicomane e del suo fidanzato spacciatore – e Cristiane F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino (Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, 1981), di Ulrich Edel – tratto dall’omonimo best seller, racconta le vicende di un gruppo di eroinomani nella Berlino degli anni Settanta. Nel 1988 invece esce Cocaina di Harold Becker, dove James Wood indossa i panni di un faccendiere newyorkese intrappolato nella rete della polvere bianca. Gli anni Novanta non sono da meno e film come Ritorno dal nulla (The Basketball Diaries, 1995) di Scott Kalvert con Leonardo di Caprio e Trainspotting (1996) di Danny Boyle con Ewan McGregor – per l’Italia è da segnalare almeno Radiofreccia (1998), l’esordio cinematografico di Luciano Ligabue con protagonista Stefano Accorsi – continuano a narrare le vicende di giovani eroinomani alle prese con la loro dipendenza. Nel 1991 David Cronenberg gira Il pasto nudo (Naked Lunch), ispirato all’omonimo romanzo di William S. Burroughs. Cupo, paranoico, visionario, il film mette in scena le allucinazioni (scarafaggi antropomorfi, alieni che secernono droga) che il protagonista, uno scrittore spiantato, si provoca inalando la polvere gialla utilizzata come topicida.

Dello stesso anno,  Belli e dannati (My Own Private Idaho) di Gus Van Sant, dove River Phoenix – che morirà d’overdose due anni dopo – interpreta Mike, un ragazzo tossicodipendente dedito alla prostituzione. Van Sant aveva già affrontato il tema della droga con Drugstore Cowboys (1989), ambientato negli anni ’70 e incentrato su un gruppo di tossicodipendenti che per procurarsi la roba rapinano farmacie e ospedali. Il 1998 è l’anno di Paura e delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas ) di Terry Gilliam, tratto dal romanzo di Hunter S. Thompson. Ambientato negli anni ’70, è la visionaria storia del giornalista Duke (Johnny Depp) che, accompagnato dall’avvocato Gonzo (Benicio Del Toro), si dirige a Las Vegas per scrivere un articolo su una corsa automobilistica. Film all’insegna dell’allucinazione e dell’eccentricità, volto a scavare nei meandri più oscuri e contraddittori del sogno americano, diverrà con gli anni un vero e proprio cult. Con Requiem for a Dream (2000), diretto da Darren Aronofsky, è la società dei consumi e dei mass media ad essere messa sotto torchio: tra videodipendenza, diete a base di anfetamine, sogni criminosi e prostituzione, Aronofsky presenta un quadro lucido quanto allucinato e visivamente sperimentale di un mondo contemporaneo allo sfacelo e senza possibilità di salvezza. Blow di Ted Demme (2001), tratto dal romanzo di Bruce Porter incentrato sulla figura di George Jung, narra l’ascesa e il declino di un narcotrafficante di cocaina dagli anni Sessanta ai giorni nostri; una sorta di remake dello Scarface (1983) di Brian De Palma, con Johnny Depp nella parte che fu di Al Pacino. Nel 2002 Daniele Mazzocca e Cristiano Bortone assemblano il documentario L’erba proibita, un film di montaggio che già dal sottotitolo – Tutto quello che avreste voluto sapere sulla canapa e non vi hanno mai detto – sembra imporsi il compito di sdoganare la canapa, mostrandone tutte le fasi storiche e i vari utilizzi, sottolineando le contraddizioni che da sempre accompagnano l’uso di questa pianta.

È chiaro, dopo questa breve e concisa carrellata, che sin dalla sua nascita il cinema è stato attratto dal tema della droga – dal traffico sino all’uso e alla dipendenza – e come, negli anni, sia anche cambiato il modo di percepire e quindi di rappresentare .questa tematica. Dalla prima metà del Novecento, in cui le sostanze stupefacenti venivano bollate indistintamente come prodotti del Male, sino agli anni Sessanta, con il tentativo di rivalutare o comunque di esprime un giudizio meno aprioristico sulla droga; dagli anni Settanta, dove l’accento si sposta per lo più sull’uso dell’eroina e sui suoi effetti distruttivi, agli anni Ottanta, quando la droga viene vista e mostrata come parte integrante di uno stile di vita all’insegna del successo e del divertimento, fino agli anni Novanta e Duemila, caratterizzati da film che sembrano proporre due chiavi interpretative parallele. Negli ultimi vent’anni infatti, se da un lato ci si è concentrati sugli aspetti più allucinatori e surreali dell’uso degli stupefacenti, rapportandoli per lo più ad uno stile di vita, quello occidentale, ritenuto deleterio ed alienante, dall’altro lato invece si è cercato di dar conto, in maniera obiettiva, degli effetti e delle potenzialità di alcune sostanze psicotrope, in primis le cosiddette droghe leggere. Certo, forse il cinema, ma non solo, nel corso degli anni ci ha in qualche modo abituati all’idea della droga, e lo ha fatto sia in positivo, presentandola come ampliamento e potenziamento delle facoltà mentali, spesso e volentieri riferendola al binomio genio e sregolatezza – All That Jazz (1979) di Bob Fosse, The Doors (1991) di Oliver Stone, Poeti dall’Inferno (Total Eclipse, 1995) di Agnieszka Holland, solo per citare qualche titolo -, sia in negativo, mostrandola come piaga sociale che incarna il malessere dell’intera umanità. Fatto sta che, negli ultimi decenni, l’uso di stupefacenti ha smesso di essere un tabù; essi non scandalizzano più e anzi vengono considerati come un dato di fatto. Così come conferma l’ultimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street (2014) – con dei brokers newyorkesi che si rimpinguano di coca e anfetamine – e Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia – dove un gruppo di ricercatori universitari spiantati decide di dedicarsi alla creazione e allo spaccio di una nuova droga legale – la sostanza stupefacente viene come integrata in un sistema sociale, culturale ed economico che appare sempre più alla deriva, sempre più legato al bisogno e al desiderio di possedere ed ostentare denaro e potere: una triade che nella quasi totalità dei film, e non senza un pizzico di ipocrisia e moralismo, non porta mai a nulla di buono.