Corrado De Rosa, psichiatra salernitano, autore de I medici della camorra (ed. Castelvecchi, 2011), Mafia da legare (con Laura Galesi, ed. Sperling Kupfer, 2013) e La mente nera (ed. Sperling & Kupfer, 2014), un’indagine su luci e ombre intorno alla figura di Aldo Semerari, criminologo dell’Italia dei tempi della Magliana, di Aldo Moro, di Piazza Fontana e della strage di Bologna. Tra gli autori di Strozzateci tutti (ed. Aliberti, 2010), La giusta parte (ed. Caracò, 2011) e Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia (ed. Castelvecchi, 2012), De Rosa ci racconta cosa si cela dietro alla dialettica degli psichiatri e dei criminologi, dei medici e dei professionisti nel momento in cui i misteri della mente e del comportamento umano sono strumentalizzati nelle aule dei tribunali.
Sembrerebbe quasi, da quello che emerge dai suoi libri, che essere professionista della mente oggi (psicologo, psichiatra, criminologo) significa non stare dalla parte della giustizia. Abbiamo criminologi che servono la banda della Magliana, medici dei camorristi, professionisti della salute mentale che attestano la pazzia di mafiosi che così sperano di farla franca.
È il contrario. Nei miei libri parlo di una corruzione presente, purtroppo, in ogni professione. Ma i medici corrotti sono una minoranza. E accendere i riflettori sulla strumentalizzazione di una professione in apparenza distante dai problemi legati al crimine organizzato, è una piccola risposta specializzata alle specializzazioni delle mafie. Penso anche che il diritto alla difesa sia sacro e, per questo, che i mafiosi hanno il diritto di difendersi nel miglior modo possibile. I boss pagano bene, in contanti e mediamente dieci volte più dello Stato. Lavorare per l’autorità giudiziaria, invece, spesso significa entrare in un ginepraio di richieste di permessi per effettuare le perizie, di giorni di ferie per discuterle in udienza, di una burocrazia farraginosa che prevede pagamenti in tempi irragionevoli rispetto alla delicatezza di incarichi che, talvolta, richiedono risposte rapidissime e sui quali grava una responsabilità molto elevata. Ecco, quindi, perché i clan diventano i committenti più appetibili. E perché sarebbe semplicistico pensare che i loro consulenti siano mafiosi. Più corretto è accettare, invece, che nella maggior parte dei casi si tratta dei più esperti.
Ma vedere un criminologo che lavora contemporaneamente per la banda della Magliana e per la magistratura…
Fa effetto, certo. Però un medico che vuole prestare le sue competenze a un privato ha il diritto di farlo. Ricordando che non può scrivere il falso, ma che deve evidenziare quella parte di verità che può tornare utile in sede processuale. L’aberrazione del sistema, piuttosto, è che nessuna legge vieta di essere il perito di un giudice in un processo a carico di un boss e il consulente privato del braccio destro di quel boss in un altro processo. Il problema, quindi, è a monte: basterebbe stabilire l’incompatibilità con il ruolo di consulente di parte per tutto il periodo in cui uno specialista sceglie di lavorare per l’autorità giudiziaria. Per esempio attraverso incarichi triennali, come si fa per gli esperti dei tribunali e i giudici onorari.
È molto labile il concetto di normalità e follia: su questo si giocano molte carte, sia da parte del magistrato che dalla controparte. Qual è la difesa sociale più immediata da attuare in questo senso?
Il sistema delle perizie addomesticate e delle consulenze false fa leva sul fatto che la psichiatria non è una branca di certezze: non c’è radiografia che dimostri se chi dice di essere depresso lo sia davvero oppure no. Questo punto è stato evidenziato da molti collaboratori di giustizia che hanno raccontato perché hanno scelto la follia come lasciapassare verso l’impunità. L’altro problema è che la psichiatria è veicolata come una branca su cui si può esprimere un filosofo, un sociologo, un assistente sociale, insomma chiunque abbia a che fare con questioni “umanistiche”. E da questo deriva una visione che imperversa sui media: la spiegazione dei comportamenti umani incomprensibili come frutto di follia. Se un killer uccide venti persone, non può essere che matto. Se un capo vive in un bunker pur di comandare, deve esserci qualcosa che non va nella sua mente. Si tratta, anche in questo caso, di semplificazioni errate che facilitano gli equivoci. Ecco perché è importante la formazione di chi lavora nel campo delle perizie ed è necessario che la comunità scientifica promuova una corretta informazione sulle malattie mentali.
Spesso come professionista si trova a confutare le tesi stesse dei tuoi colleghi. Come si pone in queste situazioni?
Senza pregiudizi e cercando di restare dentro i confini del mandato. Una buona perizia tiene al contraddittorio delle parti e si fonda sui dati di realtà, rispetta i diritti e quello che è stabilito dai codici, è redatta in modo documentato, motivato, basato su una metodologia precisa. Quando si discute di strumentalizzazioni delle malattie ci si muove lungo un crinale delicato. Anche i boss si ammalano, il carcere è un potentissimo promotore di malattie. Visto che la salute è un diritto sancito dalla Costituzione, è importante riconoscere chi simula malattie o enfatizza sintomi, per dirla in soldoni: i falsi positivi. Però è altrettanto importante non cadere nell’errore dei falsi negativi. Cioè quello di considerare simulazioni condizioni di reale sofferenza.
Negli ultimi anni la presenza della magistratura sul territorio è molto forte. Ne sono conferma reati eccellenti e minacce eccellenti. Lei come interpreta le azioni di alcuni mafiosi, ad esempio le dichiarazioni apparentemente farneticanti di Toto Riina in carcere e il dibattito su Bernardo Provenzano?
Non ho le competenze per stabilirlo. Ma le dichiarazioni di Riina cui fa riferimento, cioè quelle relative ai dialoghi con il detenuto Alberto Lo Russo nel carcere di Opera, non sembrano farneticanti. Se contestualizzate, hanno una loro coerenza e rientrano nel campo della comprensibilità. Peraltro Riina ha sempre parlato di sé come di una persona sofferente per via di malattie fisiche, ma perfettamente in grado di ragionare. Il caso di Bernardo Provenzano è differente. Dopo vicende sanitarie altalenanti, le sue condizioni si sono aggravate e da tempo la sua detenzione al 41bis sembra più un simbolo che una misura di prevenzione. Questo è un pericoloso assist per i detrattori del 41bis, che si sentiranno autorizzati ad attaccarlo considerandolo una misura disumana, come uno strumento di accanimento carcerario nonostante si tratti di una dura necessità e di un provvedimento che ha scandito la lotta alla mafia in Italia.
Ultimamente è cambiato un po’ il ruolo dell’avvocato. L’avvocato è anche un inquisitore, può fare indagini. Questo l’ha portato ad avvicinarsi a professionisti del vostro calibro.
Lo psichiatra che entra in tribunale non è uno psico-poliziotto, approfondisce le criticità sanitarie. Non deve stabilire se un imputato ha commesso un reato, deve capire se ne è stato psicologicamente responsabile perché chi ha commesso un reato a causa di malattia può non essere chiamato a risponderne. Deve capire, poi, se ci sono condizioni cliniche che impediscono di comprendere le principali fasi del processo e, quindi, di difendersi. E deve accertare se chi dice di star male può ricevere le cure in carcere oppure no.
Parliamo di Corrado De Rosa, l’uomo, quello dei post su Facebook, che sono uno spaccato di vita sociale. Quanto lo psichiatra si discosta da quell’uomo?
Davvero non saprei. Ogni tanto, provo a raccontare le bizzarrie quotidiane e le piccole nevrosi di tutti. Quelle che dentro un social network si mescolano all’autopromozione e, amplificandosi, rischiano di travalicare il limite del grottesco. E cerco di evitare i più pericolosi effetti collaterali della rete: diventare dei piccoli Torquemada post-moderni o dei narcisisti che fanno tenerezza perché perdono di vista la realtà. Tutto qua.
Com’è la nostra Salerno adesso?
È molto cambiata. Rispetto agli anni Ottanta, ha vissuto una crescita importante fatta di recupero di territori, di ridefinizione della sua geografia e anche della sua antropologia. Una città che ha fatto dell’urbanizzazione un simbolo di ricrescita ed è stata capofila virtuosa nella dinamica della differenziata in Campania. Dal mio punto di vista – che non è quello di un tecnico ovviamente, ma di cittadino – forse una città in cui la classe politica fa fatica a ridefinirsi, a entrare nella seconda fase, a superare il binomio movida-Luci d’artista. Un binomio che investe tutto sul qui e ora e meno sulla prospettiva, e cui fa da contraltare una vivacità culturale che andrebbe sostenuta con più determinazione.
Può essere una città del sud che si muove verso un riscatto sociale e culturale?
Si, a patto che a questo grande cambiamento faccia seguito in modo molto più deciso una crescita culturale sostenuta dalle istituzioni. Ma Salerno resta un buon compromesso per vivere, diciamo, a sud del Garigliano.
Gaia Stella Trischitta