Loro sono Cristina e Angela, non ‘due srilankesi’. Due nomi di fantasia per due storie tutt’altro che inventate. Cristina, 20 anni, vive in Italia da 16 anni. Angela, 21 anni, in Italia, c’è nata.
Sono solo due dei 109.968 migranti srilankesi regolarmente soggiornanti in Italia (dati emersi dal ‘Rapporto annuale sulla presenza dei migranti in Italia’ del 2016 compilato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ndr). Appartengono alla dodicesima comunità per numero di presenze tra i cittadini non comunitari presente in Italia.
Qui Angela e Cristina studiano, stringono amicizie, si innamorano. Qui Angela e Cristina vivono. Sono due ragazze, due donne. Si sentono due italiane. SONO, due italiane. Non possono però dichiararsi legalmente tali, nonostante parlino perfettamente la lingua italiana, frequentino regolarmente la scuola e vivano in perfetta armonia con il Paese che chiamano orgogliosamente ‘casa’. Un Paese descritto come dal duplice volto: da una parte una perfetta integrazione, dall’altra un’amministrazione contorta e poco chiara, che sembra agire ‘per preferenze’. Da una parte un popolo cieco alle differenze, che porta con coerenza e fierezza quel tanto inflazionato aggettivo, ‘accogliente’, che gli appartiene e gli è proprio. Dall’altra un insieme quanto mai inspiegabile di difficoltà per vedere riconosciuto ciò che, a conti fatti, costituisce una realtà.
Angela in Italia c’è nata, ma a 18 anni, nel momento in cui questa nuova donna ha richiesto l’ufficializzazione della propria cittadinanza, ha dovuto fare i conti con il NO più difficile da digerire. Cancellata dall’anagrafe, questa donna nata in Italia e ivi residente, non può definirsi cittadina italiana.
Cristina è qui da 16 anni, è andata via dal suo Paese in braccio alla propria madre. I suoi ricordi, le sue prime parole, appartengono al Paese che l’ha accolta. Ma non è cittadina italiana.
Sentire parlare queste ragazze, queste ormai giovani donne, è sentire parlare un’intera comunità. Quel 2,3% di popolazione regolarmente soggiornante in Italia, che ringrazia quotidianamente l’accoglienza ricevuta, che rispetta e segue le regole, e che chiede solamente che quelle stesse regole, seguite e rispettate, valgano per tutti.
“Non mi spiego come molti srilankesi venuti in Italia abbiano ottenuto senza troppi problemi la cittadinanza, mentre io, nata qui, non ce l’abbia fatta”. Queste le parole di Angela. Un misto di rabbia e rassegnazione. Non si vergogna ad utilizzare il termine ‘corruzione’, unica spiegazione che riesce a dare a una situazione che risulta decisamente inspiegabile. “Io voglio potermi dichiarare italiana. E’ qui che studio, qui che vivo. Ed è qui che voglio vivere. Non voglio vedere l’Italia, come fanno in molti che riescono ad ottenere la cittadinanza, come un luogo di passaggio per poter poi andare in altri paesi europei. E’ qui che voglio stare. Ma a me non è concesso. E la cosa mi fa molto soffrire”.
“Voglio vivere qui”. La frase ricorre continuamente, ma non porta con sé il desiderio di rinnegare la propria appartenenza culturale. Per Cristina, per Angela, per Mario, per Luca, l’Italia è il luogo che li ha visti nascere, o crescere. E’ il Paese da rispettare. Ma è vivo il desiderio di mantenere vive le proprie tradizioni. Un procedimento così complesso per chi lo osserva dall’esterno, ma descritto in modo assolutamente naturale da chi lo compie quotidianamente. “Abbiamo la fortuna – racconta Angela – di avere genitori che non ci fanno sentire stranieri, che ci educano come italiani, ma che al tempo stesso ci insegnano le tradizioni del nostro Paese”. Il passato non si dimentica, lo si assorbe, lo si assimila, e lo si riesce a far convivere con un presente le cui abitudini non sono da considerarsi come estranee, ma come proprie.
Il desiderio è quindi uno solo: integrazione. Un’integrazione vissuta a pieno nelle scuole, nei luoghi pubblici, come ci raccontano Angela e Cristina, ma che si vorrebbe provenisse anche da dove, fino ad ora, sono arrivati solo dinieghi. Un’integrazione che non sia a senso unico, come afferma il regista Suranga D. Katugampala, firma del film ‘Per un figlio’, uscito nelle sale il 30 marzo per ‘Gina Films’: “cosa deve fare una ragazza che nasce in Italia se si vede negare il diritto alla cittadinanza? L’integrazione non deve venire solo da lei, dai suoi sforzi, dalla sua voglia di inserimento. E’ necessario un riconoscimento. Lei qui studia, vive, lavorerà. Ma si sentirà sempre dire che non è integrata. Ma cosa vuol dire, a questo punto, integrazione?”. La domanda, in effetti, sorge spontanea.
Come spontanea la risposta della giovane Cristina che, alla domanda “Cosa desideri tu, come donna?”, risponde senza indugio: “Rispetto”. Punto.
GS Trischitta