Violenza di genere, da Messina al Brasile il messaggio è chiaro: il posto della donna è dove vuole
“Il posto della donna è dove vuole”. Un messaggio chiaro, sintetico e potente quello che ha accompagnato “Femminile sacro in azione, formazione e immersione quotidiana” convegno itinerante che si è tenuto Salvador de Bahia, Brasile, dal 2 all’8 dicembre
Una settimana sui generis organizzata dalla professoressa Ana Paula Feitosa dell’ Universida do Salvator da Bahia, cui ha partecipato anche Concetta Restuccia, messinese, responsabile per l’associazione “Penelope. Coordinamento solidarietà sociale” delle vittime di fenomeni di sfruttamento, violenza ed esclusione sociale. Concetta in Brasile ha portato la sua storia e il suo lavoro.
L’abbiamo incontrata di rientro dal suo viaggio, per parlare di donne, violenza di genere, dell’importanza di reti locali e transnazionali nella lotta alla violenza, dei tratti che accomunano il Brasile all’Italia e, per quanto lontane, di possibili soluzioni
Un viaggio per continuare a fare rete contro la violenza. Come nasce la vostra partecipazione al convegno?
Tutto nasce da un incontro con Ana Paula Feitosa, docente spagnola che si è ritrovata a Messina per fare una ricerca sull’antropologia del viaggio e della migrazione, rivolta soprattutto alle donne. E’ venuta con noi a fare l’unità di strada a Catania, a parlare con le nostre ragazze e ha elaborato le loro storie per approfondire i programmi di reinserimento. Ha visto il tipo di atteggiamento generale, strutture e programmi che abbiamo rispetto all’elaborazione di percorsi di aiuto alle donne, immigrate ma anche autoctone vittime di violenza domestica.
Questo l’ ha molto colpita. Quando ci siamo salutate mi ha detto “vi inviterò in Brasile”. Pensavo fosse una di quelle frasi che poi non hanno seguito e invece ‘l’invito è arrivato.
Otto giorni nell’universo femminile brasiliano, tra mondo accademico, culturale e sociale. Qual è la condizione delle donna brasiliana?
E’ discriminata. C’è poi una situazione particolarmente difficile che riguarda le donne brasiliane di colore. Vivono una doppia discriminazione: in quanto donne e in quanto persone di colore.
Cosa ti ha colpito maggiormente di questa immersione a Salvador de Bahia?
Ho visto con i miei occhi quella che è stata realmente la deportazione schiavista in America. La puoi ancora toccare con mano. Ci sono dei quartieri che sono dei veri e propri spaccati dell’Africa e lì rivedi i nostri migranti, volti nigeriani, gambiani, del Mali… li riconosci e capisci cosa è stato il passato.
Il secondo giorno è toccato a te presentare la situazione in Italia.
Si, sono state sufficienti le foto degli sbarchi nei nostri porti. Per loro è stato un forte impatto. Loro hanno un tipo di migrazione via terra, il passaggio via mare con tutto ciò che ne consegue, le morti e i gommoni che affondano per loro è impensabile, non se lo aspettavano.
A Salvador de Bahia cresce la coscienza sulla condizione delle donne?
Cresce ed è trasversale fortunatamente. E’ una consapevolezza che hanno già acquisito le donne adulte e che stanno trasmettendo alle nuove generazioni.
E per quanto riguarda gli uomini?
E’ complicato. C’è fermento nelle università e voglia di modificare le cose, ma si fa molta fatica. E’ un po’ come da noi. Gli uomini che si riconoscono in questa lotta al cambiamento sono una parte limitata della popolazione maschile. Anche in Brasile qualunque problema legato alla donna è un problema della donna e viene trattato e argomentato come tale. Non si parte mai del presupposto che la colpa è dell’uomo violento o di una cultura violenta. Rimane sempre quell’alone di colpevolezza della donna che ha provocato, causato o addirittura che ha “parlato” di una violenza che invece andava taciuta. Una mentalità che purtroppo ci accomuna ancora tanto.
Questo gemellaggio è l’ennesima tessera di una rete contro la violenza.
Assolutamente si. Non dimentichiamo che moltissime trans brasiliane sono vittime di tratta, così come molte ragazze spesso ingaggiate come ballerine per venire in Italia e poi costrette alla prostituzione. C’è un ponte che collega i due territori. La rete serve per arricchire e facilitare il contrasto a questo fenomeno. A Salvador de Bahia ad esempio manca una rete di supporto legata alle strutture di accoglienza. L’unica risposta sono reti locali di mutuo aiuto, trasversali, costruite grazie all’impegno di persone comuni, spesso di donne in passato vittime di abusi. Le realtà che si rivolgono alle donne vittime di violenza hanno infatti dei meccanismi molto rigidi di entrata, chi ha dei percorsi di violenza “non estrema” rischia di restare tagliato fuori da questi circuiti.
Una barriera d’ingresso, insomma, che misura il livello di soprusi necessari a ricevere aiuto. E’ quello che potrebbe avvenire in Italia con l’approvazione del decreto sicurezza?
Abbiamo già difficoltà grossissime. Noi abbiamo avuto donne che sono arrivate a denunciare anche casi di 416bis. Adesso, se dalla sera alla mattina torni in mezzo alla strada è facile tornare vittima delle organizzazioni criminali o semplicemente darti alla prostituzione pur di sopravvivere. Con il blocco delle migrazioni inoltre l’esposizione alla tratta è ancora maggiore. Non c’è mai stato nella storia dell’umanità un blocco delle migrazioni. Troveranno una strada alternativa. Perché uomini donne e bambini, per quanto inumano, sono merce.
Talmente merce che se viene deteriorata viene abbandonata.
Alla base dunque ci sono le regole del mercato, domanda e offerta?
Non è solo una questione di domanda e offerta. La stessa “fruizione” va educata. La maggior parte degli uomini ad esempio che va con prostitute nigeriane pensa che siano libere professioniste. Spesso anche per via delle ragazze che non si espongono per paura. Sul territorio non c’è alcuna coscienza della situazione. Il problema è culturale e dunque c’è un grande lavoro da fare. Basti pensare che gli uomini che vanno a prostitute sono sempre “extraterrestri”. Non è mai mio padre, mio fratello, mio zio, mio cugino o il mio fidanzato ma in strada c’è la fila e le ragazze continuano ad arrivare.
Le donne in ogni parte del mondo continuano ad essere vittima di violenza. D’altro canto quelle stesse donne fanno rete e portano avanti la battaglia per “decidere il loro posto”. Questa lotta quando finirà, se mai finirà?
Io lo dico sempre, finirà quando noi donne impareremo ad educare gli uomini. Questo è il nostro grande fallimento, perché noi siamo madri in primis, insegnanti, perché la maggior parte dei docenti di ogni ordine e grado sono donne, e nonostante ciò continuiamo a crescere uomini non capaci di rispettarci. Quando impareremo ad educare i nostri figli e i nostri uomini a quel punto forse la lotta potrà finire, altrimenti ahimè questa lotta sarà infinita.